La retorica dell'indispensabile rappresenta una delle derive più inqualificabili della pandemia. Sul banco degli imputati assieme al Covid taluni stili di vita e abitudini bollate come non necessarie e non non conformi per tornare alla normalità. Ora che s’intravede la luce si mostra per ciò che è: la restaurazione del moralismo
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Una delle derive più inqualificabili della pandemia è la retorica dell’indispensabile che se nel tunnel dell’emergenza, sebbene già inaccettabile, poteva trovare giustificazione ora che s’intravede la luce si mostra per ciò che è: la restaurazione del moralismo.
Iniziò Speranza a margine dei decreti promulgati in prime time a indottrinarci su quali aspetti delle nostre condotte fossero leciti e quali rinunciabili. A mettere sul banco degli imputati assieme al Covid taluni stili di vita insinuando nell’uditorio il sospetto che certe abitudini bollate come non necessarie fossero di logica biasimabili, non conformi alla morale che lo Stato si apprestava a risanare attraverso misure d’urgenza decise da un tribunale del buon costume. E tutto ciò, sia chiaro, non confinandoci in casa e spegnendo i motori di quelle attività in cui prossimità fisica e contatto avrebbero favorito la diffusione dei contagi ma sdoganando gratuitamente quel termine “indispensabile” che nulla aveva a che vedere con la battaglia al virus.
La perversione di questo pensiero divulgato a reti unificate in un momento di terrore è presto degenerato in mentalità mostrandosi in tutta la sua ipocrisia la scorsa estate in cui ovunque è stato possibile far festa eccetto che nei luoghi deputati ad esso. Del resto tuttora l’Italia resta uno dei pochi paesi in cui, nonostante il green pass («il più rigido», contestano), inspiegabilmente i club potranno riaprire solo al 50% di capienza e gli stadi al 75% mentre la gente vive ormai sbracata (grazie all’efficacia dei vaccini e all’alto tasso di popolazione immunizzata).
Come si può non pensare che tutto ciò, fuori da ogni logica, non sia una deriva? Che il tarlo dell’indispensabile non sia penetrato nella nostre menti tanto da farci accettare che si possa liberamente danzare durante un pranzo di nozze mentre, senza sposi, nella stessa sala il numero dei ballerini per cautela vada dimezzato? Ci sono tante storture più importanti, direte, in questo periodo storico che ha visto moltiplicarsi le discriminazioni, e non a causa del vaccino (unica arma a disposizione) ma del virus e dei conseguenti lockdown che hanno aumentato il divario tra ricchi e poveri, nord e sud, uomini e donne; impoverito la classe media, messo alla canna del gas le piccole imprese, lasciato al palo la filiera della cultura, incrementato la violenza domestica, la disoccupazione femminile, l’abbandono scolastico. Tuttavia imporre una morale non è la soluzione ma una variante della malattia.
E il paradosso è che il seme di quella retorica diffusa dai rigoristi dell’emergenza abbia attecchito proprio in chi ha scelto di non seguire alcuna logica di prudenza e oggi attacca chi s’è immunizzato appigliandosi a quell’ “indispensabile” sdoganato dai “nemici”: accusando chi ha offerto il braccio d’essersi venduto per un aperitivo o aver barattato i concittadini in cambio d’un free drink. Di aver ceduto ad una sperimentazione per tornare alle cazzate.
E quindi? Se pure ci fossimo vaccinati per riavere le cazzate che male ci sarebbe? Quale sarebbe il dolo nel voler riprogrammare viaggi, festival, serate, appuntamenti al buio? Nel volere ripristinare il caso in luogo dei programmi che l’emergenza ci ha imposto. Spiegatemi dove sarebbe la colpa nel voler spegnere una pandemia e tornare alla propria vita. Non quella degli altri più decorosa, ma alle proprie vecchie indecenti abitudini per cui si sopportava tutto il resto delle seccature che far parte di una comunità impone. Tra cui contribuire alla salute pubblica e farlo per il motivo che meglio si crede. Come debellare l’onda rigorista di chi biasima il piacere derubricandolo a vizio.
L’indispensabile sarà pure invisibile agli occhi ma se il bigottismo li rende ciechi, viva l’onanismo!