Quando gli artisti entrarono in quel posto segreto, gli Hollywood's A&M Studios, videro un biglietto scritto a penna attaccato con lo scotch sopra lo stipite della porta. Era di Quincy Jones e diceva: “Lasciate l’ego fuori dalla porta”. Un po’ come dire a un leone di diventare vegetariano. È il 25 gennaio del 1985 e 46 tra i più grandi artisti del pianeta, sono tutti lì con indosso ancora l’abito sfoggiato per gli American Music Awards appena terminati. Nessun after party per le stelle, ma un progetto da cominciare e finire nel pugno di poche ore.

A presentare la serata, e a vincere tanti premi, è Lionel Richie, sulla cresta dell’onda come solista dopo anni trascorsi come frontman dei Commodores. Fa il mattatore, sembra divertirsi (e sudare parecchio), ma il suo pensiero non va alle statuette, ma a quello che succederà dopo. Appena le luci del palco si spengono e gli artisti cominciano ad allontanarsi in gruppo, i giornalisti assediano Richie, vogliono sapere di quel progetto riservatissimo. Il cantante dice poche parole e scompare dietro le quinte.

Quella sarà una notte lunghissima e darà alla luce uno dei brani più famosi di tutti i tempi “We are the world”. Un progetto folle, partorito dalla mente di Harry Belafonte, attore, musicista, soprattutto attivista, che aveva questa idea di riunire tanti artisti per una buona causa, raccogliere fondi per l’Etiopia colpita da una grave carestia, come aveva fatto Bob Geldof in UK.

La prima chiamata di Belafonte è a Quincy Jones che, a sua volta, contatta Lionel Richie per scrivere testo e musica. Steve Wonder si fa attendere troppo, così Jones propone: «Chiamiamo  Michael (Jackson)». Dopo qualche giorno Richie e Jackson erano insieme, nella super villa dell’artista di Thriller, a scegliere che tono dare a questo brano. «Una marcia? Un inno? Cosa?» racconta l’interprete di “All night long”.

I tempi erano stretti e per prima cosa andavano scelti i cantanti e poi la data per la registrazione (anche se ancora il brano non era neppure abbozzato). Cominciò un giro di chiamate agli agenti. Prince era tra gli artisti corteggiati, ma il più difficile da abbordare. Dissero sì subito Springsteen (reduce da un tour estenuante) e Kim Carnes; a Madonna fu preferita Cindy Lauper, della partita volevano far parte anche Bob Dylan, Diana Ross, Tina Tuner, Kenny Rogers e anche Dionne Warwick, «perché se ti chiama Quincy vuol dire che c’è di mezzo un progetto interessante».

Netflix ha lanciato da qualche giorno un documentario che svela i retroscena di quella sera, unica e rara, dal titolo “We are the world, la notte che cambiò il pop”, in cui alcuni tra i protagonisti di quella notte, raccontano la genesi di un progetto che riuscì a raccogliere il gotha mondiale della musica per una buona causa. Più di 100 milioni di dollari vennero devoluti alla causa etiope (e il flusso continua anche oggi). Il documentario, tuttavia, non si concentra sulla parte benefica, ma sul making of di un’impresa non da poco perché tra registrazioni, problemi tecnici, qualche capriccio, mettere d’accordo così tante superstar sembrava un obiettivo utopistico. Il risultato, nonostante qualche defezione in corsa, è una canzone che il mondo da quarant'anni conosce, canta, canticchia, ripete, conosce a memoria, suona alla chitarra, al piano. E quelle immagini in Vhs, sul dietro le quinte, rimandano un senso di nostalgia per un tempo passato e per cantanti che non ci sono più. C'è un giovanissimo Bob Dylan, timido e in disparte, c'è il graffio di Huey Lewis e del Boss, l’acuto della Lauper, e poi le lacrime di Diana Ross quando stringendo Steve Wonder, all'alba, mormora teneramente: «Non voglio che finisca».