Domenica andrà in onda l'ultima puntata di un'opera che ha conquistato il pubblico di tutto il mondo firmata dall'autore di "Chernobyl"
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È il gioiello del disastro che volevamo, di cui avevamo bisogno. Dopo anni di attese e delusioni, impennate in racconti che promettevano, promettevano, e poi si esaurivano come batterie dopo i primi episodi, è arrivato quello giusto nel volto latino di Pedro Pascal, sconnesso eroe, sbeccato e caotico, calato nella realtà presa a prestito dal mondo del game.
“The last of us” poteva essere un giro a vuoto nella ridda di produzioni di genere alcune delle quali, va detto, ammaliano sulle prime con quella fotografia notturna (al limite del buio), le scenografie in palette, gli opening credit lavorati da studi che sanno il fatto loro. Poi, stringendo al succo, alla storia e alla costruzione degli intrecci, al condimento speziato dei personaggi, la maggior parte di film e serie evaporano in breve, sempre più impoveriti nei dialoghi e negli orizzonti, fino a morire in epiloghi che nessuno aspetta col patema.
“The last of us” prende spunto e ruoli da un popolare gioco per Playstation del 2013. Non è usanza nuova, a dire il vero, attingere dalle trame di game popolari. Dalla consolle allo schermo sono passati i mitologici Alone in the dark, Silent Hill, Lara Croft, Mortal Kombat, con alterne fortune. “The last of us - la serie", ideata da Craig Mazin e Neil Druckmann, riesce dove, ad esempio, The Walking Dead (con cui ha diversi punti di contatto) non è mai riuscito ad arrivare, ballando per intere stagioni tra la noia e la caccia ai residui in fondo al barile. TLOU scava nell’umanità senza indugiare in dinamiche mielose e troppo attendiste. Qui il male che ha scatenato la fine del mondo è ben definito da subito: si tratta di un fungo. L’essere biologico più resistente della storia del mondo, il grande vecchio che non conosce estinzione, spora dopo spora, a causa del riscaldamento globale inizia a proliferare anche negli organismi umani prendendone il controllo.
Contro il Cordyceps, nella sua versione mutata, non esistono cure. Nessun vaccino, nessun antibiotico, nessun siero è efficace per guarire un’umanità trasformata in pupazzi informi senza cervello, aggressivi come bestie che schiumano. Sullo sfondo di una temuta estinzione di massa, emerge la storia di un uomo, Joel, in viaggio con una ragazzina, Ellie, forse unica speranza del mondo. Lei è immune al fungo, è stata morsa ma non ha sviluppato il male. Insieme attraversano una terra ferita in cui gli abitanti sani conoscono solo la sopravvivenza come religione monoteista e violenta.
La forza della serie, che domenica avrà la sua conclusione, è nella capacità di andare oltre la semplicissima azione. Il successo, montato puntata dopo puntata, è merito di Mazin che aveva già regalato quella preziosa perla che è stata “Chernobyl”. Con delicatezza spietata è riuscito a superare il rischio di confezionare una storia plastificata, retta solo da suspense e cliffhanger, raccontando le pieghe di anime in pena senza indulgenza, ispirandosi più al Cormac McCarthy di quel capolavoro che è “The road”, che a qualche Armageddon mainstream. Anche la musica fa la sua parte: Santaolalla, Depeche Mode, New Oblivion, Ari Lasso, Cream sono alcuni degli artisti che accompagnano la fine degli episodi strappando un fiato di dispiacere su titoli di coda che sembrano sempre arrivare troppo presto. E tra poco toccherà fare a meno di quel viaggio che ci è piaciuto così tanto, quando la storia si chiuderà con l’ultima canzone.