Se c’è una casa, c’è una storia. Se c’è una vecchia casa, c’è una storia dell’orrore fatta e finita. Così ci insegna la letteratura di genere, il cinema dei drammi bui, delle soffitte, degli scantinati con una sola lampadina da 15W da accendere tirando il filo (che poi si rompe). Una finestra che sbatte non è mai solo una finestra sfuggita al gancio, una luce che si chiude d’improvviso non è per un cortocircuito. «C’era una volta» non sempre è l’inizio di una favola anche se a dare il benvenuto è Guillermo Del Toro che qualche mese fa ha lanciato su Netflix un progetto cullato a lungo: una casa scura fatta di otto finestre. Tanti sono gli episodi di “The cabinet of the curiosities” (lo stanzino delle curiosità) che la piattaforma con la grande Enne rossa, ha rilasciato dopo una gestazione di cinque anni.

Del Toro fa il padrone di casa

Aveva tanta voglia di provarci ad essere l’anfitrione di una dimora infernale, in cui le ombre allungate sulle pareti richiamassero le sagome di Poe e Lovecraft su radici sparse del distopico profondo (e c’è anche un tocco estetico che richiama il vecchio Dario Argento nelle musiche e nella fotografia). C’è riuscito? Se la paura fa 90 quella di Del Toro fa 89. Sebbene la fattura degli episodi sia ottima (il minimo sindacale che ci si aspetta da un prodotto Netflix), questo non basta a farne un successo. I sessanta minuti a episodio non volano sempre leggeri e questo per colpa di una sceneggiatura a tratti zoppa, che non riesce a sostenere un impianto ambizioso con i fili sufficientemente tesi.

Ci sono, tuttavia, episodi che svettano sugli altri. “I Ratti del Cimitero” tratto dal racconto di Henry Kuttner, non è niente male così come “L’Autopsia” con l’inossidabile F. Murray Abraham. Gli altri paiono desiderare d’essere, poggiando solo su un’estetica ricercata senza riuscire ad agguantare per la collottola lo spettatore per trascinarlo nelle paludi umide del terrore d’antan. Neppure giocando con gli archetipi del manifesto horror si fa il miracolo: streghe, possessioni, bimbi sacrificati, nulla riesce a far gelare il sangue, la pelle non si accappona, gli occhi restano bene aperti per tutto il tempo.

Zio Tibia where are u?

Del Toro, che non sempre riesce nei suoi intenti filmici (buoni colpi e, appresso, ganci a vuoto) più che a Hitchock che introduceva con la sua sagoma iconica e un tono monocorde (appositamente studiato per risultare di distaccata inquietudine), le storie in bianco e nero di avidi intrappolati in una bara appena sepolta, doveva avere come modello il caro Zio Tibia, l’affezionato vecchio in putrefazione che negli anni 80 faceva venire i brividi anche nelle notti estive più calde, preparando gli spettatori a una notte horror come Dio comanda. A inseguire la raffinatezza che sulle piattaforme sembra un codice di omologazione che comincia a stancare, si finisce per trascurare la narrazione, anche se dietro la macchina da presa c’è un pool di registi scelti con cura (Jennifer Kent, David Prior, Guillermo Navarro, Keith Thomas, Panos Cosmatos, Catherine Hardwicke, Vincenzo Natali, Ana Lily Amirpour). La paura è un’arte che si dipinge con un pennello grezzo e sghembo, ma quando deve scrivere col sangue non sbaglia.