Beatrice Borromeo dirige un mini doc sull’uomo che non fu mai Re tra vacuità e vizi. Le ombre sull’omicidio dell’isola del Cavallo, l’arresto in Italia, le interviste grottesche, le ritrattazioni assurde
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La noblesse oblige non è morta, ma a guardare il principe Vittorio Emanuele di Savoia, l’uomo che non diventò mai re (Deo gratias!), pare di sì. Curvo, sperso, alienato, se ne sta davanti all’obiettivo con lo sguardo nel vuoto mentre racconta la sua verità (una delle tante) davanti alle telecamere de “Il Principe” (su Netflix), invitando la troupe a prendere uno “champagnino”, tanto per gradire. La mini docu-serie ricostruisce in tre episodi il giallo meno giallo della storia degli assassinii, col ritmo delle crime series ma con l’effetto di un film tragicomico, quasi un incidente tra “Sapore di mare” e “Jfk”.
A dirigere le danze, dietro la macchina da presa, è una regista dal sangue blu, Beatrice Borromeo Casiraghi, figlia di conti, nipote dei Marzotto, sposata a un principe, con una parentesi televisiva al fianco di Michele Santoro, giornalista, ora filmmaker, e sposa di Pierre Casiraghi, figlio di Carolina di Monaco. Una insider per una storia di cui ancora si chiacchiera nei salotti.
Il principe spogliato
Fatta l’Italia si fecero gli italiani che al Re preferirono la Repubblica. La ferita, nei Savoia, è ancora aperta tanto che le accuse di brogli ancora aleggiano nei loro racconti («eh, quei due milioni di voti… apparsi così», dice Filiberto), quasi sperando che qualcuno riconteggi le schede e smonti il Parlamento per far posto al trono. Il Vittorio ultraottantenne, malinconico e assente, con amarezza, ricorda la grande ingiustizia che si è consumata quel giorno in cui la famiglia salì su un aereo e lasciò l’Italia. «Ci hanno tolto tutto» sospira mentre scorrono le immagini di lui, giovane, sulla prua di una barca ormeggiata su un mare così blu da far male agli occhi, mentre si trastulla in una grande vasca che affaccia su un panorama da cartolina o nel suo appartamento lussuoso affondato nella vegetazione. Tra una passeggiata e un ordine di ostriche, Vittorio Emanuele, ha trovato il tempo anche di compiere un omicidio, ammettere la sua colpa, ritrattare, riammettere, smentire, mentre l’Italia decideva che la sua sacra famiglia poteva rientrare senza fomentare disordini o nostalgie monarchiche più forti di uno slogan di olive o di un trofeo a Ballando con le stelle.
Il proiettile vagante nella notte del Cavallo
Nella docu-serie, si ricostruisce l’omicidio del giovane tedesco Dirk Hamer, raggiunto da una pallottola di fucile il 18 agosto del 1978 mentre dormiva profondamente nella cabina di una barca ormeggiata nel piccolo golfo dell’Isola del Cavallo (o Cavalò à la francais), in Corsica. Lì, in quello splendore azzurro, il principe, sua moglie Marina Doria (impeccabile nella sua coda rigonfiata sulla nuca a prova di tuffo) e il piccolo Emanuele Filiberto, trascorrono la vita da esiliati deluxe. Tutto sembra andare nel migliore dei modi in quelle giornate soleggiate e pigri, pepate appena da una punta di nostalgia italica a favore di telecamere, sorseggiando vinello francese. Poi il nero irrompe a bagnare il rosa-Bellini, quando un gruppo di giovani arriva sull’isola per una gita.
L'invasione del canotto e l'ira del Principe
Il chiacchiericcio degli invasor (i turisti in bermuda in vena di goliardia, tra cui Giovanni Malagò e il viveur Nicky Pende) disturba a tal punto il Principe esiliato, da portarlo, una notte, a sparare due colpi di fucile (uno ad all’altezza d’uomo) verso le barche dei giovani che ondulavano sul mare notturno. Casus belli, un canottino che i ragazzi avrebbero preso a prestito per raggiungere le proprie imbarcazioni, di proprietà del principino dei Savoia. L’usurpazione del territorio galleggiante a remi, è la goccia che fa traboccare un vaso pieno fino all’orlo di risentimento. Vittorio Emanuele, turbato dall’arroganza italiana che aveva, nell’ordine: cacciato lui e suo padre dal Regno, tolto il Regno, rubato un canotto, decide che è davvero troppo. Così, sotto il chiarore della luna corsa, imbracciata l’arma, fa fuoco.
Il destino crudele di Dirk Hamer
Il fato vuole che uno dei due colpi, prenda una via crudele. Il proiettile attraversa la carena di una barca ferendo il diciassettenne Hamer, assopito e inconsapevole che il suo destino si scriveva quella notte (sarebbe morto dopo qualche mese tra atroci sofferenze). Gli avvenimenti che seguirono sono stati minuziosamente ricostruiti nel doc grazie al poderoso archivio videofotografico a disposizione che aggancia ancora di più la storia al reale, rendendo l’idea dell’assurdo che accadde dopo che il fucile di Vittorio Emanuele sparò quella notte al grido di: “Maledetti italiani!”
Birgit e la ricerca di giustizia
A cercare giustizia, per molti anni, fu solo la sorella dello sfortunato Dirk, la bellissima Birgit, che affrontò i mulini a vento e una delle piaghe del Ventunesimo secolo: i monarchici, quelli che amano genuflettersi, contare i titoli (a volte comprarli), entrare di straforo alla Scala, e vorrebbero una Vostra Altezza vestita di merletti che gli dica di far mangiare brioches al popolo per falso storico.
Tra procedimenti farsa e avvocati di alto lignaggio che si inginocchiarono all’erede al trono, prima di dare la propria inutile testimonianza sullo scranno del processo in Francia, la vita dei reali italici, a detta di Filiberto, intanto cresciuto, era diventata un incubo, dimenticando la vita da incubo (vera) della famiglia della vittima che intanto si sgretolava con conseguenze a catena inimmaginabili.
Il Principe dei guai
La vita del principe Vittorio, Re solo dei disastri che macinava uno via l'altro, scorreva tra un arresto e un rapimento, un’adesione alla massoneria e settimane di gattabuia con annesse confessioni (poi smentite), un arresto per sfruttamento della prostituzione e una copertina sui giornali (mitologico il titolo Casino Royal del Manifesto). Non si è mai sottratto a un’intervista nel goffo tentativo di mascherare le sue colpe (tanto evidenti quanto assurde erano le giustificazioni mormorate con un sorriso da leprotto), dando di sé un’idea sempre più astrusa, bizzarra, bugiarda, confusa. Nel docu-film ci sono anche i contributi di Luciano Regolo, condirettore di Famiglia Cristiana e grande conoscitore di storie di Reali, e del giornalista Pino Aprile già direttore della testata LaCNews, testimone dei momenti che seguirono la sentenza in Francia di assoluzione del principe. La storia della corona dimezzata ha le venature dell’assurdo, è reale solo perché vera, non perché nobile.