La serie coreana che ha conquistato il mondo, torna con la sua seconda stagione divisa in due parti. Tra polemiche e richiami alla realtà, la trama potrebbe essere ispirata a fatti realmente accaduti in Corea del Sud
Tutti gli articoli di Good Morning Vietnam
PHOTO
La seconda stagione della serie coreana Squid Game (Il gioco del calamaro) non è partita con il piede giusto, ingiustamente. I mercati coreani hanno traballato persino, per le azioni collegate alle società di produzione che speravano che il prodotto volasse così come era avvenuto per il primo capitolo del sanguinario prodotto distribuito da Netflix. Nonostante queste premesse non proprio felici, la storia mantiene bene anche nella seconda stagione, e pur se non macinerà i record della prima, non può certo dirsi un insuccesso.
L’esordio nel 2021 e la seconda stagione
Squid Game partì in sordina, non fu neanche doppiato in italiano sulle prime, ma il pubblico lo premiò e, a furor di popolo, diventò il caso dell’autunno del 2021.
La storia è nota: 456 concorrenti, perlopiù gente sbandata e senza un soldo, si trovano coinvolti in un gioco spietato, in cui chi sopravvive alle prove mortali porterà a casa una cifra ragguardevole: più di 40 miliardi di won (circa 30 milioni di euro).
Noi seguiamo soprattutto le vicende di Gi-hun, un brav’uomo ma col vizio del gioco, una figlia a cui non riesce a badare come vorrebbe, una madre malata di diabete. Vive in miseria e alla giornata, nelle pozze di fango di una periferia umida e appiccicosa, in cui una varia umanità campa come può, cibandosi di scarti e teste di pesce avanzato dai mercati. Nessuno dei prescelti è costretto a partecipare e, con l’accordo della maggioranza, tutti possono tornare a casa sani, salvi e poveri come prima.
Lo faranno? Come si comporteranno i concorrenti? Stringeranno alleanze o confermeranno quello che scriveva Plauto: homo hominis lupus?
Il finale della seconda stagione
Diretta da Hwang Dong-hyuk regista coreano di Seul, famoso per il suo Dogani (2011), che riuscì a far varare una legge in protezione dei bambini sordi vittime di pedofilia - a distanza di poco più di due anni la serie è sbarcata sul gigante della grande N Rossa con un sequel spaccato in due parti: la prima l’abbiamo consumata prima di Capodanno, la seconda (finale a quanto pare definitivo) sarà disponibile dal 27 giugno prossimo.
Squid Game è davvero ispirato a una storia vera? Facciamo chiarezza
Quella che negli ultimi giorni sta impazzando in Rete è la notizia che riconduce la storia della serie a qualcosa di realmente avvenuto. Pare che il gioco mortale non sia proprio frutto dell’immaginazione di Hwang Dong-hyuk, ma sia stato ispirato alla cronaca coreana del passato. In più, gli autori di As the Gods Will, film giapponese del 2014 e ispirato al manga di Akeji Fujimura, hanno avuto parecchio da ridire su Squid Game, riconoscendo un po’ troppe similitudini con la loro storia (un gruppo di studenti costretti da una bambola a fare giochi infantili e mortali per salvarsi la vita, tra cui il famoso Un... due... tre... stella!).
Ma torniamo in Corea e facciamo un passo indietro.
Le torture nella Brothers’ Home
Alla fine degli anni Sessanta, lo Stato asiatico, guidato dalla giunta militare di Park Chung Hee, decise di fare “pulizia” in casa. Il governo si persuase che rinchiudere e isolare soggetti ritenuti scarti della società, potesse lucidare l’immagine del Paese, crescere famiglie sane, formare lavoratori integerrimi e rendere la Corea ricca e prospera. Truppe di soldati vennero mandate in pattuglie in ogni angolo dello Stato con il compito di raccogliere i vagabondi, bisognosi, ma anche dissidenti, e portarli in luoghi lontani dalle città.
A Seul, Busan, Daegu, Daejeon e Gwangju cominciarono a sorgere “centri di detenzione per vagabondi”, legittimati da una serie di leggi promulgate nel 1961 e completate nel Social Welfare Services Act del 1970, che rese ogni vagabondo tra i 18 e i 65 anni idoneo per i “servizi di assistenza sociale”.
Vagabondi erano coloro che «impedivano un sano ordine sociale nelle città e nella società», una definizione piuttosto vaga, che permetteva ai soldati di caricare nei furgoni chiunque non gli andasse a genio: mendicanti, bambini abbandonati, orfani e disabili. Alcuni piccoli, riportano le cronache, furono presi, senza che i loro genitori o tutori ne fossero a conoscenza. Di loro e di tanti altri, non se ne seppe mai nulla.
I luoghi di raccolta furono ribattezzati con il nome rassicurante di Brothers’ Home (la casa dei fratelli), ma le testimonianze di quello che avveniva lì dentro sono da far raggelare il sangue nelle vene, perché la tortura era all’ordine del giorno, così come le violenze sessuali.
Migliaia di persone, tra cui bambini, anziani e disabili, vennero incarcerate in condizioni disumane, senza motivazioni legali. La capienza massima di 500 persone fu largamente superata, con oltre 3.000 detenuti contemporaneamente, che vivevano in spazi sovraffollati e senza servizi adeguati.
Prima delle Olimpiadi di Seul
Nei primi anni Ottanta, e prima delle Olimpiadi di Seul, l’allora presidente Chun Doo-Hwan ordinò di «assicurarsi che non ci fossero accattoni per le strade»; i soldati fecero retate in tutto il Paese e in molti furono catturati.
Nel “reparto psichiatrico” della struttura, i detenuti venivano sottoposti a trattamenti forzati con farmaci come la clorpromazina, che causavano effetti collaterali debilitanti.
Le prime indagini
Nel 1986, quando un procuratore avviò un’indagine, il governo militare di Chun Doo-Hwan cercò di insabbiare tutto, ma non ci riuscì del tutto. Il direttore della struttura, Park In-geun, fu sottoposto a giudizio, ma ricevette una pena molto lieve.
Nel 1987, il governo rilasciò molti detenuti, ma la maggior parte di loro non ricevette alcun risarcimento o supporto. Alcuni cercarono di presentare cause legali, ma vennero convinti a ritirarle.
L’inchiesta pubblica uscì solo nel 2012, quando Han Jong-seon, un sopravvissuto, protestò di fronte all’Assemblea Nazionale. Il processo agli aguzzini e allo Stato che ne era il capo, venne ostacolato in ogni modo fino al 2019, quando il governo propose, finalmente, alle vittime un risarcimento.
La tratta dei bambini e la Commissione
Molti bambini, si scoprì in seguito, furono venduti all’estero e il numero delle vittime che morirono in quegli istituti non è nota con precisione. Nel 2022, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC) della Corea del Sud ha ufficialmente riconosciuto le violazioni dei diritti umani avvenute tra il 1975 e il 1987 presso il Brothers’ Home, una struttura per senzatetto a Busan.
Le parole del regista di Squid Game
Il regista di Squid Game, tuttavia, non ha mai fatto riferimento al dramma dei Brothers’ Home, spiegando invece che a ispirarlo nella stesura del soggetto fu il caso dei licenziamenti alla SsangYong Motor. Nel 2009, la casa automobilistica licenziò 2.000 dipendenti, gettando sul lastrico moltissime persone. Molti si suicidarono per la disperazione, altri contrassero debiti ingenti che non riuscirono mai a restituire.
«Attraverso il riferimento ai licenziamenti della SsangYong Motor – spiegò Hwang Dong-hyuk – volevo dimostrare che qualsiasi persona comune della classe media, nel mondo in cui viviamo oggi, può cadere in fondo alla scala economica da un giorno all’altro».