Su Disney+ una delle migliori produzioni in circolazione tratta dal romanzo bestseller del 1975 di James Clavell. Un’esperienza immersiva nel mondo del Sol levante che lascerà il segno
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La sfida dei samurai di Shogun (la miniserie su Disney +) parte da lontano. Dal romanzo di James Clavell del 1975. Lo scrittore australiano, scomparso nel 1994, era figlio di un ufficiale della British Royal Navy. Durante la seconda guerra mondiale finì al fronte in Malaysia, a fronteggiare le truppe giapponesi. Fu catturato dai nipponici e si fece una dura galera. Gli anni della prigionia a Java, lo segnarono nell’anima in modo profondo, ritornando poi nei suoi scritti successivi. Non erano i gradi e le mostrine nel suo futuro. La sua carriera militare finì presto a causa di un incidente. Così si iscrisse all’Università di Birmingham, si appassionò al cinema e divenne uno scrittore.
Shogun – nome riservato alla carica più alta delle forze armate del paese, alla lettera “grande generale dell'esercito che sottomette i barbari” - è il primo atto della Saga Asiatica, che divenne un successo planetario: 15 milioni le copie vendute in tutto il mondo. Nel 2018 il canale FX inizia a mettere gli occhi sul romanzo per farne una nuova miniserie (ce n’è una datata 1980 con Richard Chamberlain). Ci vorranno altri tre anni, e diversi cambi nella produzione e nel team degli sceneggiatori, per arrivare al primo ciak.
L’estetica della serie è ammaliante, maestosa a tratti, mai puramente esornativa. L'opera sposa la liturgia giapponese della lentezza, con l’epica e la violenza belluina che non fa sconti a nessuno, sullo sfondo di un Giappone feudale battuto da una pioggia spietata sotto un cielo petrolio. L'arte orientale di scomparire dentro sé stessi, il mascherare le emozioni fino a farle diventare invisibili anche a un occhio attento, diventano elementi ipnotici per lo spettatore che cade preda di un fascino esotico che non fa prigionieri. La vena romantica si declina a filo di sguardo, quello che corre tra l’Anjin, barbaro e straniero (Cosmo Jarvis), e la abbagliante Mariko (Anna Sawai), mentre il signore della guerra Toranaga (Hiroyuki Sanada che abbiamo visto anche ne “L’ultimo samurai”, in “Lost” e in “47 Ronin”) cavalca l’onda della rivalsa per difendere la sua causa a cui i suoi adepti si piegano supini accettandone le conseguenze.
Seguiamo così le vicende di John Blackthorne, marinaio inglese, naufrago con la sua nave (Erasmus) sulle coste di un Giappone infiammato dalle lotte intestine tra clan che sognano di accaparrarsi il potere. L’imperatore è morto, lasciando un erede troppo giovane per governare. Il consiglio dei Cinque, tesse trame sottili come lame, per far fuori l’avversario più temibile, Toranaga, fine stratega, che fronteggia il suo diretto competitor, Ishido, spalleggiato dalla madre dell’erede che agisce nell’ombra.
Sulla scelta della lingua la produzione è stata audace, perché la maggior parte della serie è in lingua originale, giapponese, sottotitolata, fedele alla volontà di non regalare il solito ritratto occidentalizzato del Giappone. La distanza culturale e umana, tra due popoli, due mondi che sembrano appartenere a pianeti diversi, non impedisce al giovane “pilota” di essere sedotto da una società in cui anche la vita e la morte hanno un significato molto diverso rispetto al resto del mondo. L’orgoglio e l’amicizia si spingono fino al limite, fino al suicidio rituale, il seppuku, segnato dalla punta di una katana infilata nel proprio stomaco solo per dimostrare che la vita ha senso solo quando è mirata a un obiettivo. L’odio per il nemico va di pari passo con il rispetto per il sacrificio, e il tradimento è punito senza pietà, perché la morte è l’unica catarsi possibile quando un patto di fedeltà viene rotto, per qualsiasi motivo, anche il migliore possibile. Il destino muove le esistenze e gli uomini non possono che accettarlo, fedeli allo shoganai, cioè l'accettazione di ciò che non può essere cambiato, neppure da un samurai.