Diretta da Ben Stiller, la serie che ha debuttato il 18 febbraio sul canale streaming del colosso di Cupertino è un esperimento distopico che affascina e terrorizza
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Cosa accadrebbe se entrando ogni mattina in ufficio, tutto quello che è accaduto poco prima di varcare le porte dell'ascensore aziendale svanisse dalla nostra mente? Non solo una dimenticanza, una distrazione, ma una temporanea e volontaria cancellazione. Siamo tutto quello che ricordiamo, o restiamo noi stessi anche se una parte della nostra memoria non c’è più? Chi siamo se dividiamo il nostro io che lavora, dal nostro io che vive fuori? Prova a immaginarlo Dan Erickson, creatore della nuova serie original AppleTv+. Dietro la macchina da presa c’è Ben Stiller (che esordì alla regia nel cinema nel lontano 1994 con “Giovani, carini e disoccupati" e che non ha mai abbandonato la passione per l’obiettivo) nel doppio ruolo di director (in staffetta con Aoife McArdle) e direttore esecutivo di un’opera distopica imperdibile che, dopo una lunga attesa, ha debuttato il 18 febbraio sul canale streaming dell’azienda di Cupertino.
Il ritratto freddo e geometrico delle scene, regalato dagli arredi ultraminimal con richiami al design degli anni Sessanta, restituisce agli occhi un’opera inquietante nella successione di un loop quotidiano infernale, escheriano. Terrorizzano, soprattutto, gli atti in serie di un essere umano orfano inconsapevole della sua parte di fuori, alienato rispetto al mondo esterno, destinato a diventare un ingranaggio anonimo, senza scopo o ambizione, organo cieco di un corpo di cui non riesce ad avere contezza.
Opening credit memorabili
La serie apre con degli opening credit surreali di grande impatto visivo che a tratti sembrano sospesi tra le suggestioni di Magritte, l’onirismo del settimo piano e mezzo di “Being John Malkovich”, e la vista periferica sulle arie traumatizzanti di Charlie Kaufman. Gira l’ouverture sulla musica di Theodore Shapiro che insiste su quattro accordi per poi variare man mano che il mistero si dipana e si apre.
La trama
Siamo in un presente, possibile futuro, profilato di passato. Il lavoro è una religione da vestire in maniche corte di camicia ben stirata, una liturgia eucaristica che richiede sacrificio e sottomissione, un atto di fede, una prostrazione a un Dio invisibile che agisce per vie astruse e incomprensibili.
I dipendenti della Lumon Industries, prima di accettare il lavoro devono sottoporsi a una procedura chiamata di “scissione” (in inglese “severance” che richiama al sinonimo di “liquidazione da licenziamento”, forse non a caso). Una sonda, infilata nelle meningi sospende i ricordi della vita fuori dall’ufficio quando l’impiegato timbra il cartellino, e quelli della vita lavorativa quando torna a casa.
Seguiamo, così, le vicende di Mark Scout, un uomo perbene, sofferente per una perdita familiare. È un tranquillo impiegato modello, vive in penombra in una casa vuota, ha una vicina distratta, gode poco di una recente promozione nel reparto in cui opera. È insomma una rotella resistente di un’azienda che nessuno sa cosa produca (nemmeno chi ci lavora) o per cosa impieghi le sue risorse. In un ufficio dagli enormi spazi vuoti, diviso tra il bianco assoluto delle pareti e il verde muschio della moquette e dei separé, lavorano in quattro, seduti davanti a bombati monitor d’antan. Il loro compito è osservare numeri fluttuanti sulle schermate Dos e cancellare quelle cifre che improvvisamente suscitano paura. Tutto qui. E questo ogni giorno fino all’orario di uscita quando in ascensore, il proprio io più personale e vissuto, riprende spazio nella testa dimenticando ciò che è accaduto prima. Ma qualcosa, in quel sistema solido, cementato, ipercontrollato, ad un certo punto della nostra storia, s’incrinerà, mostrando il paradosso, un precipizio così scuro che a guardarci dentro si perde il senno.
Il fantasma di Steve Jobs
Nel cast troviamo Adam Scott, Yul Vazquez, Britt Lower, Zack Cherry, John Turturro e Patricia Arquette con l’incursione di Christopher Walken di cui parlano già solo gli occhi e quel sorriso obliquo che non invecchierà mai. Tutti uniti tra i corridoi-labirinto di un’azienda che sembra quasi fare il verso all’emittente che questa serie la produce e al suo phantom Jobs che dell’aziendalismo aveva fatto una filosofia con tanto di salmi scolpiti nell’immaginario collettivo (lo stranoto «stay hungry, stay foolish») prima di scomparire diventando egli stesso il cuore di metallo di una strana macchina del futuro.