È l'opera di cui tutti parlano ispirato a un romanzo inglese di successo, eppure il risultato è così mediocre da apparire un miscuglio più che scandaloso, noioso
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“Saltburn” (su Prime Video), è il film di cui tutti parlano ed è forse quello di cui meno si dovrebbe parlare. È un avanzo spacciato per una cena gourmet, ben confezionato nella sua messa in scena, ma tanto povero da far rimpiangere il digiuno. Il classico caso di furbo ammiccamento all’autorialità disturbante, che finisce per strappare sbadigli anche ai più svegli. La regista Emerald Fenner (l’abbiamo vista nei panni di Camilla Parker Bowles in “The Crown”, e con l’Oscar in mano per “Una donna promettente”) cerca di fare il colpaccio d’essai, ma finisce gambe all’aria già nei primi dieci minuti quando comincia ad addentrarsi il forte sospetto che si tratti di pura aria fritta.
Non basta alla Fenner qualche soluzione creativa negli opening credits (con font medioevale), non basta l’uso del 4:3 che fa tanto autore raffinato, non basta una fotografia che esalta i contrasti e rifugge la classica “nebbiolina” tanto à la page, non basta un cast pieno di buone intenzioni (e del bello che non balla, Jacob Elordi), non basta qualche quadro filmico costruito come un dipinto,un castello perfetto in ogni condizione di luce, perché il film è quasi tutto da buttare e con un finale più vicino alla demenzialità che al simbolismo.
Quella strana sensazione di già visto (meglio)
La storia in breve. Un giovane studente di Oxford, con poche possibilità punta a diventare amico di un brillante ereditiero per tentare una scalata sociale. "Saltburn" si manifesta, fin dalle prime battute, come una brutta copia del “Il talento di Mr Ripley” con qualche tentativo di aggrapparsi a Guadagnino e con un alluce piantato in un occhio di Von Trier. Il povero Barry Keoghan, a un certo punto, compare con delle corna di cervo in testa (forse un omaggio alla sua interpretazione per Lanthimos "Il sacrificio del cero sacro"), confermandosi come il volto del disagio di Hollywood (non si contano più le sue parti da psicopatico).
Trascorrono così più di due ore, tra musichette e vedute aeree, condite da qualche scena ad effetto (forse per ridestare dal sonno la platea). Il mutamento del protagonista appare repentino e a singhiozzo, manca il contrasto, il dolore, il patimento; la storia ci mostra gli effetti trascurando le cause, fermandosi alla costruzione di sequenze a beneficio della pura estetica sganciata dal senso. Il male non germoglia a sufficienza, la sua genesi è stroncata da uno scontato succedersi di fatti privi di fascino e mordente, di relazioni mai approfondite, di una morbosità affrontata come in un compitino in brutta copia. Ogni personaggio del film si riduce a una macchietta (compreso il maggiordomo che vorrebbe essere inquietante, ma è solo un soprammobile fuori posto) e il fascino del cattivo stinge in un pantano di luoghi comuni e prevedibilità.
Il romanzo di Waugh
L’intento di "Saltburn" è chiarissimo: usare soluzioni scabrose sangue&sesso per colpire gli spettatori nelle parti basse, sperando in tal modo di conseguire la patente di film-scandalo ed entrare nell'Eliseo dei film maledetti. Obiettivo fallito. Lo sforzo è così palese e supportato da una scrittura tanto pigra e facilona, da strappare sbadigli e qualche smorfia di disgusto. Il riferimento letterario è all’opera di Evelyn Waugh “Ritorno a Brideshead” (che ha venature autobiografiche), come ammesso in apertura di film sotto forma di una battuta riferita allo scrittore, da cui fu tratta una miniserie nel 1981 con Jeremy Irons e Laurence Olivier, arricchita da una colonna sonora considerata come tra le più belle mai scritte per la tv. Comunque sia, in ogni opera c'è qualcosa da buono, in "Saltburn" è la consapevolezza che dopo due ore finisce.