C’è questa melodia, ti arriva addosso come una pioggia che ti coglie di sorpresa. Un fischio da lontano racconta qualcosa delle locande basse con i tagliolini fumanti pronti, presenta vite perdute, piedi anneriti dalla cenere, e sfuma nel sole gigante d’Oriente che rosseggia tremando nella sera.

Nel sottobosco delle reti private, nascoste sotto chili di melme promozionali, celate dalle felci ammuffite dei tappeti orientali, delle pentole, dei tritatutto, brillavano le vere perle dell’animazione d’infanzia, a distanza di un passo per chi spingeva il telecomando oltre il canale 6. Solo lì partiva una fisarmonica distratta che ora è incastonata nel sottobosco dei ricordi ancestrali.

Ashita no Joe

Uno scricciolo, un peso gallo, col cappello arancio, consunto, calato sulla chioma scura, cammina sul ponticello di bambù che porta ai bassifondi di polvere. I guantoni rossi in spalla, l’occhio gonfio per le botte sul ring. Eccolo Rocky Joe, o come lo chiamano in Giappone, Ashita no Joe, Joe del domani. Un capolavoro dell’animazione schizzato con il carboncino tinto nel sangue che, a rivoli, macchiava il quadrato da combattimento, segnava i nasi rotti, colorava le fasce di protezione strette sui palmi delle mani.

Calate nel buio blu della galera, dei riformatori, dei vicoli segnati dalle assi sporgenti, spiccavano le guance coperte di cicatrici bianchicce dei pugili affamati. Abitanti fantasmatici di luoghi aridi e secchi, popolati da una varia umanità oscena, sconfitta e dolente, impiccata ai margini di un benessere solo immaginato.

La varia umanità perduta

Nella suburbia si beve pessimo alcol e s’accendono i fuochi di sera per far ballare le ombre, si tingono le pance gonfie, si contano i denti caduti, gli occhi accecati.

Istantanee ferme nella memoria: la palestra del guercio Danpei, l’amico Nishi, il pugno incrociato con Toro Riki, compagno di cella, il nemico più amato, steso infine su quel tappeto da cui non si rialzerà più. In ogni fotogramma dell’anime tratto dal manga creato da Asao Takamori (pseudonimo di Ikki Kajiwara) si respira il colore sbiadito delle periferie di un Giappone piegato dalla miseria negli anni ’60. Lì le strade sono aborti di destinazione, pervase dal profumo del riso cotto ingoiato avidamente dalle ciotole sbeccate.

Boxe e polvere

Joe “piedi piccoli” Yabuki è un figlio di nessuno che non ha fatto altro che entrare e uscire dagli orfanotrofi dello Stato. Nell’ultima fuga, lontano da Tokyo, si trova a girovagare tra le baraccopoli dei bassifondi. Lì la sua inquietudine incrocia la vita arresa del vecchio Danpei Tange, ex pugile, ora ubriacone e nullafacente. Dopo una zuffa, Danpei capisce quanto Joe abbia la stoffa per combattere, e diventa il suo allenatore personale. Comincia una contorta via verso il riscatto sociale che impatta sul carattere, spigoloso e irriverente, di Joe, un lupo solitario ma pur sempre un ragazzino.

Nell’anime, Rikishi, l’avversario di Joe, ha una straordinaria somiglianza con Sylvester Stallone che avrebbe interpretato Rocky, però, solo qualche anno dopo. Uno segno del destino, forse un segno del caos che batte le ali in Giappone e crea un sogno a Philadelphia.

Restano solo le bianche ceneri

Joe picchia duro, colpisce il destino con il suo sinistro migliore, mentre attraversa il ponte delle lacrime battuto dagli zoccoli di legno del maestro ubriaco di sake. Ad attendere l’alba dell’allenamento, ci sono i sacchi da boxe appesi nella palestra Tange che sembrano cadaveri in attesa di degna sepoltura.

Nell’ultima scena della seconda serie Joe è all’angolo, con la testa china, il ciuffo sugli occhi. Prima di morire sussurra al suo pubblico: «Non c’è più niente da bruciare, solo le bianche ceneri». È sconfitto. Mendoza ha vinto. Joe ha dato tutto, ma non c’è giustizia divina nella vittoria. E lui molla i guantoni, sorride. La guerra è finita.