Una spedizione, partita nel febbraio scorso, ha portato alla luce il relitto della leggendaria imbarcazione affondata nel novembre del 1915 da cui iniziò una delle avventure più incredibili del '900
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È il 5 dicembre del 1914. Un giovane comandante irlandese di nome Ernest Shackleton parte a bordo della Endurance con ventisette uomini dell’equipaggio, dalla costa orientale della Georgia australe alla volta del Polo Sud, con l’obiettivo di attraversare a piedi, da ovest a est, il continente antartico. Il vento soffia dal Nord, quel giorno, gonfia la vela di trinchetto alzata per giocare con la brezza, e porta mare grosso. La chiglia dell’Endurance schiva i growler, i pericolosi blocchi ghiacciati che affiorano appena in superficie dai marosi indaco, e lo sguardo del comandante è fermo verso il Continente bianco.
L’umore della truppa è alto. Worlsey, Wild e Hudson si alternano in vedetta, i pinguini di Adelia sfuggono alle virate di Clark emettendo versi quasi di scherno. Prioni, sterne, albatros, procellarie e rondini di mare, volteggiano intorno alla nave che taglia il tratto di mare sorvegliato dall’isola Saunders e dal vulcano Candlemas. Il pack, quel che resta della banchisa polare, stritolerà presto l’Endurance, conservandola per sempre lì, sul pelo del mondo, lasciando Shackleton e i suoi uomini a vivere una delle più grandi avventure nella storia delle esplorazioni.
Oggi, 108 anni più tardi, il 5 marzo scorso alle 8 p.m., ora locale, il respiro del comandante irlandese ha alitato sul collo dell’archeologo subacqueo Mensun Bound, che a bordo della rompighiaccio S.A. Agulhas II, s’è trovato davanti i resti di una nave leggendaria. Nei fondali, a oltre 3mila metri di profondità, e ad appena 4 miglia nautiche a sud dell’ultima posizione rilevata un secolo prima, eccola, la nave di Shackleton.
Alle camere subacquee sono apparse le lettere di bronzo dell’Endurance sopra la stella polare. La goletta della nave è lì, quasi intatta, con i legni levigati e le meduse dai lunghi filamenti a proteggerla, perfetta «come se fosse affondata ieri».
La grande sfida a Sud del comandante dei comandanti
Quando Shackleton lasciò andare la vista della Georgia australe, non poteva immaginare che su quella stessa costa sarebbe attraccato due anni più tardi, insieme ad altri pochi compagni della “Spedizione Transantartica Imperiale” che risultavano da mesi dispersi nel mare polare.
Shackleton non era alla sua prima esperienza in Antartide. Già nel 1901, ai comandi del trentaduenne capitano Robert Falcon Scott, s’era imbarcato con l’equipaggio del Discovery. Colpito dallo scorbuto, nel dicembre del 1902, a causa dell’aggravarsi della malattia e degli scontri, sempre più frequenti, con il comandante Scott, Shackleton ritornò in patria. Deciso a non gettare la spugna, iniziò a cercare patrocinatori per ripartire verso il continente antartico, ottenendo l’interessamento dell’industriale Beardmore che finanziò gran parte del progetto. Fu allora che nel febbraio del 1907, acquistato il Nimrod, un piccolo battello per la caccia alla foca, con sedici uomini a bordo, tra cui geologi come Edgeworth David, Douglas Mawson e Rymond Priestley, si diresse alla volta della costa polare di McMurdo, tanto cara a Scott.
La missione fallita e la ripartenza
Tuttavia quella missione era destinata a non compiersi. Usati come traino per le slitte al posto dei cani siberiani, i cavallini della Manciuria morirono uno ad uno, colpiti durante la marcia dal violento blizzard che li assiderò, costringendo l’equipaggio a ridurre il carico dei viveri. Shackleton era partito misurando al millimetro scorte di viveri e abbigliamento da dividere in 4 slitte da 11 piedi ciascuna, ma trascurò (e come lui fece Scott) un’annotazione dell’esploratore Nansen che parlava proprio dei cavallini come bestie inadatte ad avventure come quelle. Fu Scott a pagare il prezzo più alto per quella incuria e il tragico epilogo della sua missione ancora oggi provoca i brividi. Alla fine di novembre, dopo due mesi di viaggio, il gruppo del comandante irlandese Shackleton arrivò a 97 miglia marine dal Polo. Allo stremo della resistenza fisica, l’equipaggio fu costretto ad arretrare e reimbarcarsi sulla Nimrod per far ritorno in Inghilterra.
Nonostante il fallimento, Shackleton, nominato Sir da re Edoardo VII, fu accolto in patria come un eroe, e la sua esperienza si trasformò in un lungometraggio, i cui diritti erano stati depositati dallo stesso esploratore prima della partenza, e in un libro scritto a quattro mani col giornalista Edward Saunders dal titolo: “Alla conquista del Polo Sud, il cuore dell’Antartico. Storia della spedizione antartica inglese 1907-1909”.
Dopo il trionfo del norvegese Amundsen e l’atroce fine della spedizione di Scott, Shackleton concluse che l’ultimo primato ancora da raggiungere in Antartide fosse l’attraversamento a piedi dal Mare di Weddell al Mare di Ross toccando il Polo. Un percorso di 3300 chilometri. Per la missione reclutò Frank Hurley, un appassionato fotografo e operatore australiano perché immortalasse con i suoi scatti l’epica impresa. Dopo aver raggranellato finanziamenti per 60mila sterline, contando sull’appoggio economico di facoltosi imprenditori, del governo inglese e di una cifra simbolica versata dalla Royal Geographical Society (poco ottimista, in verità, sulla buona riuscita dell’impresa dopo il fallimento di quella di Scott), quella ribattezzata da Shackleton come “Spedizione Transantartica Imperiale”, finalmente mollò gli ormeggi.
L'Endurance prende il mare
L’Endurance, una goletta da 300 tonnellate, costruita nei cantieri navali norvegesi Framnaes di Sandefjord specializzati nella costruzione di baleniere, salpò da Londra il primo agosto 1914, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania. Raggiunta la Georgia australe, dopo una breve sosta per gli ultimi rifornimenti, la nave ripartì dopo tre giorni verso il Polo, ritrovandosi subito stretta nella morsa dei ghiacci antartici. Nel novembre del 1915, l’Endurance, bloccata da un anno tra gli iceberg nel mare di Weddel, affondò.
Le scialuppe di salvataggio, sotto la guida dell’esperto capitano Frank Worsley, toccarono, il 14 aprile dopo diciotto mesi di deriva, la terraferma polare. Fu allora che Shackleton, consapevole che mai nessun soccorso sarebbe arrivato per salvarli, scelse gli uomini più audaci e coraggiosi della ciurma, tra i quali lo stesso Worsley, per tentare l’impresa disperata di raggiungere, a bordo della piccola James Caird, le coste da cui erano partiti.
L'inaffondabile James Caird
Un incredibile percorso di 1200 chilometri sotto la gelida pioggia, uno sferzante vento che soffiava ad una velocità media di 60 nodi all’ora, e l’incubo che i blocchi di ghiaccio galleggianti facessero affondare l’imbarcazione da un momento all’altro. In stiva c'erano stipate delle latte con alcol denaturato, due fornelli Primus, gallette, zucchero, 160 litri d'acqua, il sestante, torce da segnalazione, 30 litri di petrolio, fiammiferi, sale e latte in polvere più i sacchi a pelo e le calze di ricambio. A mezzogiorno di un lunedì di Pasqua, la James Caird scivolò in acqua e prese il largo. I tredici uomini salutarono da terra il loro comandante e i sei uomini partiti con lui: Worsley, McCarthy, Crean, McNeish il carpentiere e Vincent, il nostromo.
Il vento crudele, batteva forte sull'imbarcazione. Gli spazi erano ristretti e l'equipaggio perennemente esposto alla tempesta e all'acqua. Nonostante le difficoltà, tutti cercavano di non sprofondare nella preoccupazione, concedendosi anche dei momenti di allegria, specie quando Worsley non riusciva a tener su il fornello. La pelle, coperta dagli stessi indumenti per settimane, era ormai carta vetrata, e quel che restava nel tubetto della crema Hazeline, non bastava più a dare sollievo.
Il 9 maggio 1916, trentatré giorni dopo dalla partenza, la James Caird approdò a destinazione, ma gli uomini si accorsero subito di essere attraccati sul versante sbagliato. Davanti a loro si stagliavano le cime della catena montuosa georgiana che mai nessuno era riuscito a varcare prima. Iniziò così la leggendaria traversata delle due coste, un labirinto di crepacci e ghiacciai. Scrisse Shackleton nei suoi diari, quasi vinto dalla stanchezza e dall’inedia: «Il rammarico non sta tanto nel dover morire, ma nel fatto che nessuno saprà mai quanto siamo stati vicini a salvarci». E invece ce la fecero.
Con gli abiti ridotti ormai in cenci, la barba incolta e segni di ipotermia, bussarono alle porte della stazione baleniera di Stromness, chiedendo soccorso ad un attonito direttore di sede che li credeva, come il resto del mondo, morti da quasi due anni. Gli altri membri dell’equipaggio, che attendevano sull’Isola dell’Elefante la morte tra i ghiacci, vennero tratti in salvo. Tutti. Profetica si rivelò la frase che Louis Bernacchi, il fisico che aveva partecipato alla prima spedizione del Discovery di Scott, scrisse a proposito dell’allora ancora sconosciuto giovane ventiseienne irlandese: «Per Shackleton l’Antartico non esiste. È totalmente assorbito nel suo mondo interiore. Per lui l’Antartide non è solo un luogo da conquistare ma rappresenta una metafora della vita».