Nel 1982 a Cannes debuttò il film che incantò intere generazioni in cui Steven Spielberg cercò di riconciliarsi col suo passato
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Sulla costa nord Occidentale della California, a Crescent City, nel cuore del parco nazionale di Redwood costeggiato dalla Route 101 che porta al confine con l’Oregon, e poi ai piedi delle San Gabriel’s mountains, una bicicletta Kuwahara sfreccia tra gli alberi più alti del mondo impigliandosi negli spuntoni delle rocce. È quella di Elliot, nove anni. Batte sui pedali come un ossesso prima di prendere il volo in una notte d’autunno. Lui e il suo fagotto, sballottato dal vento, attraversano il cielo notturno. La luna piena è appesa come un quadro, sommersa da un velo di violini d’orchestra accordati sui toni avventurosi del compositore John Williams. E.T. deve tornare a tornare a casa. Vuole tornare a casa. Il suo viaggio è partito da lontano, molto prima del suo atterraggio sul nostro pianeta. Tutto è cominciato in una casa di Cincinnati, nell’Ohio, negli anni Sessanta, dalla fantasia di un ragazzino ebreo con una dannata paura di andare a scuola.
Siamo ormai all’alba di una nuova epoca. Nel 1982 Ronald Reagan, ex attore, ex sindacalista, ex governatore della California, l’avrebbe spuntata su un Carter annientato dal suo stesso pessimismo. In piena Guerra fredda, la minaccia di un conflitto nucleare devastante diventa lo spauracchio che si agita sulle villette bifamiliari di milioni di americani con il cane, il barbecue e il sacrosanto diritto di bere una birra davanti al telequiz delle otto. Tutti guardano al cielo, lì si cercano risposte, aiuti, altri nemici oltre ai comunisti, verso cui tendere agitando con orgoglio la bandierina a stelle e strisce rattoppata dagli strappi rimediati in Vietnam.
Ridley Scott, dopo “Alien”, ha preso in mano un romanzo di Philip K. Dick “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” e ne sta facendo un film: “Blade runner”. Lucas, poi, ha in cantiere il sequel di “Guerre Stellari”. Gli altri mondi si travestono di possibilità e paure com’era già accaduto nel cinema e nella letteratura durante la Grande Depressione e i due conflitti mondiali.
Steven Spielberg alla fine degli anni Settanta ha passato i trenta da un po’. Porta con sé un successo planetario come “Lo Squalo”, ha terminato le riprese di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e si appresta a portare sullo schermo l’archeologo “Indiana Jones”. In Tunisia, alle prese con la fuga dell’archeologo dai nazisti appassionati di feticci dell’Antico Testamento, seduto su un gradino di pietra conclude fra sé che i mostri che aveva pensato per il prossimo progetto, “Night Skies”, non gli appartenevano granché. Lo emozionava, invece, la storia buttata giù da Melissa Mathison su un brutto anatroccolo alieno dimenticato sulla Terra dai suoi simili. Era qualcosa che lo riportava indietro nel tempo, in quella sua casa di Cincinnati. Fu il primo sussulto di vita dell’extraterrestre che avrebbe chiamato casa con un Grillo Parlante di Texas Instruments indicando, col dito ossuto, il cielo.
Spielberg immagina un ragazzino col padre in Messico, che respira il dopobarba del genitore da una vecchia maglietta dimenticata in garage per cercare di rimarginare quel distacco. Ma le crepe non si accomodano con poco. Continuò ad inseguire in tutti i suoi film quella figura paterna che a lui era sempre sfuggita, specie dopo il divorzio dei genitori. Spielberg, regista in ascesa e conteso dalle major, nascondeva ancora le cicatrici di un percorso infernale, segnato da anni di discriminazione e solitudine. All’epoca delle medie era solo un bimbo ebreo che si era trasferito da poco nel New Jersey, dileggiato per la sua dislessia e additato come uno diverso, uno fuoriposto, un perdente. Le uniche consolazioni erano la sua 8mm e una banda di sgangherati come lui che s’erano ribattezzati Goon Squad (e che anni più tardi si trasformarono sul grande schermo nei Goonies).
Spielberg completa con la sceneggiatrice Melissa Mathison, all’epoca moglie di Harrison Ford, la storia “E.T. ed io”. Quando lo script arriva sul tavolo di Frank Price, numero uno della Columbia Pictures, viene bollato come «un’altra molliccia storia Disney». La Columbia concluse che il film non aveva un potenziale commerciale adeguato.
Spielberg se la prese a morte. Il progetto di E.T. virò verso la Universal che lo accolse senza farsi pregare. Il regista era così arrabbiato che, quando in seguito, l’esecutivo della Columbia si trasferì alla Universal, Spielberg fu categorico: per qualsiasi affare che mi riguardi non voglio mai più avere a che fare con Price.
Ora che E.T. aveva una casa serviva una faccia. Spielberg, colpito dall’alieno di Scott, chiamò Carlo Rambaldi. «Mi serve qualcosa di diverso, che ispiri tenerezza, protezione». Dopo vari tentativi Rambaldi si trovò una sera a fissare il suo gatto himalayano: occhi grandi, naso piccolissimo. «Eccolo. È lui» pensò. «Il mio E.T…».
Il film uscì in anteprima a Cannes nel maggio del 1982, accolto con una standing ovation in sala, e poi nei cinema di tutto il mondo diventando un successo senza precedenti.
L’alieno goffo, lontano da casa, con la pelle rugosa, gli occhi accoglienti, fu per Spielberg l’occasione per scrivere un nuovo capitolo di una space opera, distante dai toni lugubri delle precedenti pellicole di genere, ma fu anche un modo per esorcizzare quel disagio che lui aveva sofferto da piccolo, quando non riusciva neppure a uscire di casa senza guardarsi alle spalle. E.T. era l’emblema di una minoranza che stentava a farsi accogliere, riconoscere, accettare. Solo la purezza dei bambini e l’intuizione di uno scienziato illuminato, che nel film quasi compensa l’assenza di un padre comprensivo, complice e amorevole, riusciranno a salvare E.T. da un pianeta ancora incapace di accogliere chi fugge, chi nasce, chi sogna in modo diverso.