C’è tanta fiaba, c’è Carroll, c’è il manifesto femminista. C’è la morale, come nelle favole di Esopo, e la vendetta come nelle storie giapponesi antiche. Ma quando un regista come Lanthimos, che ci ha abituati a chiederci dove diavolo ci sta portando, facendoci strada con una lanterna in una strettoia sotterranea, si ambienta a Hollywood il risultato è "Essere Tim Burton". 

Povere Creature! ha due grossi meriti: averci regalato l’interpretazione di Emma Stone (che ha l'Oscar a portata di mano), e le inquadrature, con quei fisheye claustrofobici e i tratti in bianco e nero antico, pura goduria per gli occhi. Eppure siamo così lontani dai codici morse con cui il regista greco ci ha insegnato a leggere le sue opere, che quasi sembra il film di un altro autore, bravo, certo, ma non lo stesso di DogTooth, La favorita, Lobster.

In questo film, il regista, la vita ce l’ha resa piuttosto facile: è tutto lineare, interpretabile, quasi telefonato. Il simbolo non si scioglie nel dubbio, nel cervellotico allenamento all'assurdo, non c'è aria di teatro Grand Guignol, solo ombre fantasmagoriche che non sanguinano perché proiezioni innocue su una parete.

C’è poco mistero in "Povere creature!" e qualche discesa didascalica che le scene pittoriche non riescono a salvare dall'ovvio. Siamo anche lontanissimi dalla poetica del rifiuto, dell’invidia, della luce tagliente, la violenza è edulcorata: zucchero per caffè, anziché fiele a tradimento. La durata dell'opera, non aiuta. Fosse stata più breve, di almeno mezz'ora, sarebbe arrivata più spietata al cuore, invece si sofferma troppo sulle vicende sessuali della protagonista, come se l’autore temesse di non aver detto tutto sull’argomento, e diventa a tratti ripetitiva, stancante. Pura estetica.

Il film, tratto dal romanzo di Alasdair Gray (Safarà editore), che attinge dalle visioni di Frankestein di Mary Shelley, è divertente, ma l’acclamazione planetaria del regista potrebbe segnare una svolta troppo “civilizzata” per un autore che sta subendo il fascino discreto della borghesia produttiva, mentre ha finora abitato negli angoli bui traendone linfa succosa. Tutto questo rischia di renderlo parte della ridente popolazione degli ex-geni con pochi mezzi, diventati produttori di film “carini e strani" con grandi budget. 

La trama in pochi tocchi: siamo in epoca tardo-vittoriana. Una donna incinta (Emma Stone) si uccide gettandosi da un ponte. Uno scienziato (Willem Dafoe) la riporta in vita trapiantandole il cervello del suo feto. Diventa una donna adulta col cervello di un neonato che si sviluppa rapidamente insieme alla sua curiosità sul mondo. Bella, così si chiama, scopre il piacere fin nei suoi confini più estremi, lambisce la perversione ma senza malizia; solo per godimento esplora, è libera nel corpo e nel pensiero. Non comprende il peccato e le convenzioni, il cinismo e il calcolo, affascina e seduce fino a essere considerata una minaccia per il maschio patriarcale cui si ribella. È il mondo visto dagli occhi di una bambina capricciosa e instabile, che non capisce il bilanciamento di prevaricazione che muove le relazioni, la povertà, l'ingiustizia. Con la crescita mantiene stretto il candore senza cedere al conformismo.

Il film tutto sommato è gradevole. Le musiche, le scenografie, le trovate surreali funzionano a dovere e immergono lo spettatore in un mondo onirico in cui i colori arrivano a stracciare il grigiore quando Bella scopre le meraviglie del sesso come una Alice sensuale e affamata, accogliendo la vita tra le sue gambe e nei suoi occhi, senza sentirsi in dovere di allinearsi alla società. La sua felicità è darsi piacere con “furiosi sobbalzi” di uomini soggiogati dalla sua innocenza anche se, alla fine, è nella borghese tranquillità di un matrimonio pratico e stabile che si accoccola. Forse questa è la cosa che fa più paura del film.