A Sulmona nei giorni precedenti al Natale fa un freddo della malora. La neve copre la cittadina addobbata a festa. Gli uomini si stringono nei loden verde muschio, le signore nelle pellicce di ermellino che sanno di canfora. Avvocati, politici, raccomandati, nonne, figlie, si mescolano per le vie. I bambini fanno chiasso e scappano di mano, ed è tutto un entrare e uscire dai negozi con pacchetti chiusi da nastri appena arricciati con le lame delle forbici. Nel vociare si colgono indizi di pianificazione meticolosa di pranzi e cene, uscite per la Messa e passaparola sul menù di Capodanno a base di tortellini con panna e prosciutto e cotechini precotti.

Porta Napoli, all’ingresso della città, accoglie lo sciame festoso e affaccendato, incurante del dramma che si consumerà poco distante.

Siamo nel 1991. L’Italia è ancora quella degli spaghetti al dente e quattro fratelli, come ogni anno, lasciano le rispettive case e regioni, per festeggiare il Natale tutti insieme nella dimora degli anziani genitori: Saverio, ex carabiniere ora in pensione, e Trieste, allegra casalinga eccitatissima per l’arrivo dei figli e dei nipoti.

La casa viene scaldata da bracieri, il frigo è ricolmo, i letti fatti e pronti; si infornano taralli al vino bianco, si prenota il capitone, si lucida la tombola. 

Saranno sette giorni – da Natale a Capodanno - che nessuno dimenticherà mai, soprattutto il piccolo Mauro, raccontastorie del film “Parenti serpenti”, regia Mario Monicelli, raro esempio di film italiano natalizio, che non ci si stanca mai di rivedere. 

I nuclei familiari raccolti sotto uno stesso tetto, diventeranno nuclei atomici impazziti nel giro di pochissime ore. L’eccitazione convulsa e insana, provocata da quella convivenza forzata, metterà a stretto contatto caratteri e vite diverse, rinfocolando antichi rancori mascherati da amore filiale. In breve la commedia si trasformerà in tragedia, come accade nelle migliori famiglie.

Tra recriminazioni, egoismi, vecchie ruggini, invidie e nevrosi, i quattro fratelli – due uomini e due donne – finiranno i sorrisi di circostanza anzitempo, mostrando il loro vero volto. Vedremo così cadere la maschera dell’ipocrisia con la stessa facilità con cui si scarta un regalo. I borghesi piccoli piccoli, mostreranno di essere ancora più minuscoli, perché capaci di pianificare un gesto estremo pur di salvaguardare sé stessi e i loro micromondi sbiaditi.

Ad accendere la miccia sarà mamma Trieste. Durante il pranzo di Natale comunicherà al parentado, davanti a un piatto fumante di tortellini in brodo di cappone, che lei e il marito andranno a vivere stabilmente da uno dei figli. Chi si prenderà l’onere di fare da bastone della vecchiaia dei due genitori, avrà come ricompensa la casa di famiglia. In quel preciso momento i sorrisi si geleranno e gli sguardi si tingeranno di sospetto.

Durante le riunioni carbonare, buone per rinfacciarsi vecchi torti o presunti tali, sarà subito chiaro che nessuno dei figli (comprese nuore e generi) vuole rinunciare alla casa e ai beni che contiene, ma nemmeno accollarsi i due anziani. Gli eventi precipiteranno velocemente, sino ad arrivare all’epilogo grottesco e irresistibile nella notte di Capodanno, consumata nella locanda à la page del posto, animata da un presentatore annoiato e da quattro ballerine scosciate.

Mario Monicelli raccoglie qui un grandissimo cast che dà vita a uno dei film di Natale italiani più belli e cinici di sempre. Lo spietato ritratto di una famiglia degli anni Ottanta che sparla di Ornella Muti e guarda Fantastico.

Alessandro Haber, veste i panni di Alfredo, il figlio omosessuale con la passione per Mina e le Kessler; Cinzia Leone è Gina, fiammante moglie dell’ingenuo Alessandro (Eugenio Masciari); la nevrotica Lina (la bravissima Marina Confalone) è la consorte del geometra iscritto alla Dc (Michele Tommaso Bianco), e poi ci sono Milena e Filippo che non possono avere figli (e forse è un bene), col volto di Monica Scattini e Renato Cecchetto.

Il film nasce da un soggetto scritto da Carmine Amoroso che, come raccontò lui stesso anni dopo, si giocò il saluto di molti dei suoi familiari che si riconobbero nella pellicola. Lo scrittore, candidamente, spiegò che per scrivere una storia come quella, non poteva che ispirarsi alla sua vita vera.

Per il ruolo di Trieste, la matriarca, fu scelta Pia Velsi, celebre soubrette degli anni ’40, ingaggiata quasi per caso perché Monicelli pensava fosse morta. Per Alfredo, ruolo che fu poi di Alessandro Haber, era stato contattato Giorgio Gaber, che rifiutò in modo categorico.

«È una storia insensata – disse l’artista all’epoca - di due vecchi genitori diventati ingombranti, che i figli eliminano col metanolo, mezzo alquanto scemo, neppure grottesco. C’è persino una scena in cui io dovrei affettare della verdura cantando una canzone di Mina: così in basso non voglio cadere, non me lo perdonerei mai. Anche Monicelli secondo me dovrebbe lasciar perdere, lui è molto meglio di questo progetto».

Anche i grandi, sbagliano, Gaber compreso.

L’autore parlò di metanolo perché, nella sceneggiatura originale, era quello il mezzo scelto per togliere di torno i due anziani. A ispirare Amoroso fu un fatto di cronaca risalente alla seconda metà degli anni 80, quando in Italia venne sequestrata una nave cisterna che conteneva bottiglie di vino ritoccate col metanolo, pronte a essere immesse nel mercato. Alla fine Monicelli scelse la cara vecchia stufa a gas per una chiusura col botto. Quando si dice un finale di classe per gente di classe.