L'opera in quattro stagioni, prodotta da Ridley Scott, è ispirata al capolavoro ucronico di Philip K. Dick che rivoluzionò l'universo della fantascienza
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Se. Se il mondo fosse un altro da quello che conosciamo e viviamo. Se dalla Seconda guerra mondiale Hitler ne fosse uscito vittorioso, glorioso, follemente ancora a capo di un Impero. Se, di conseguenza, il pianeta fosse diventato una colonia del Reich e del Giappone pulito dal ricordo dei funghi atomici su Hiroshima e Nagasaki. Se il tempo scorresse sempre in avanti sfiorando, però, tutti gli altri possibili mondi frutto di diramazioni altrettanto infinite, cosa sarebbe di noi stessi?
Se potessimo dare un’occhiata, vedendo un film, ai nostri “noi” che si muovono in altri acquari, davvero saremmo capaci di modificare il corso degli eventi? Davvero la consapevolezza dell’orrore smuoverebbe gli animi deviandone gli intenti?
Un ultimo “se”. Se metti insieme un romanzo ucronico come “La svastica sul Sole”, un’idea visiva eccellente e tutto il tempo che ci vuole per raccontare la storia di un mondo devastato da un’altra cronaca, cosa troveremmo? Risposta: “The man in the high Castle”, la serie tratta dal romanzo di Philip K. Dick (disponibile su Amazon Prime).
Creata da Frank Spotnitz (che ha messo lo zampino in “X-Files” e che ha collaborato in Italia come showrunner ne “I Medici”), dipanata in quattro stagioni, la serie, prodotta da Ridley Scott, è il paradiso dello spettatore: ogni puntata è rigonfia di ingredienti miscelati per sentirne ogni sentore, nessuno copre l’altro, tutti concorrono al piacere immenso, forse raro, di saziare (a volte straziare) chi guarda e assapora.
Fotografata in modo eccellente da James Hawkinson che ha ricevuto il premio nella categoria “Miglior fotografia per una serie single-camera” per l’episodio The New World, introdotta da una ouverture di opening credits degna della tradizione americana, “The man in the high castle” è una perla. Banalmente: non si può perdere, va vista.
Le puntate non lasciano mai la bocca arida tanto sono succose, scritte con mestiere in modo eccellente e calibrate al punto da non lasciare mai che il momento meno tensivo si trasformi in soporifere chiacchiere da dormitorio.
Tra gli attori del cast spicca l’attore britannico Rufus Sewell, nei panni del nazista americano Smith, che regala un’interpretazione asciutta e perfetta a cui affezionarsi mordendosi la lingua.
“The man in the high Castle” è da divorare, sbranare. Qualcuno la definisce una spy story, lo è, è anche questo, ma è anche fantascienza, distopia, ucronia, è il genio di Philip K. Dick che dà la mano allo schermo. Il romanzo è molto più complesso, meno lineare rispetto alla sua trasposizione filmica. Dentro le pagine, scritte nel 1962, c’è la vita di Dick, la sua critica, ferocissima, all’attualità del mondo, ci sono demoni che ballano, paure ancestrali che graffiano lavagne di ardesia, c'è il suo intento di far uscire la science-fiction da quattro mura di stereotipi scrivendo un romanzo anomalo e pieno di scatole dentro scatole.
La serie di Spotnitz, va detto, è un adattamento che risponde ai canoni dello schermo ma senza tradire lo spirito del racconto, è una mitragliata di colpi di scena continui, cambi di rotta, personaggi talmente interessanti da suscitare sensi di colpa, è televisione ma è anche cinema, è asciugatura, rispetto a una filosofia molto più profonda, ma restituisce appieno un mondo possibile, seppur orrendo, non tanto diverso dal nostro.