Il regista Mike Flanagan si ispira ai racconti più famosi dello scrittore di Boston, da "La maschera della morte rossa" a "Il cuore rivelatore" passando per il "Pozzo e il pendolo", e confeziona otto episodi da vedere a notte fonda
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Da un regista nato a Salem non ci si poteva aspettare che girasse commedie. Mike Flanagan, fedele al sangue di una terra di roghi, streghe e Sabba sotto una luna di fiele, ha riacceso il fuoco dell'interesse in chi da anni s’era allontanato dall’horror raccontato in punta di canini, per eccesso di offerta (dozzinale). S'è fatto strada pescando nel classico, mostrando una buona mano, imboccando la via petrosa del “liberamente tratto da”, avvolta dalla semioscurità perenne che il digitale in tv ha sdoganato in quantità seriale (con conseguente aumento della miopia degli spettatori).
Tutti gli omaggi di Flanagan, dalla Jackson a Lovecraft
In The Haunting of Hill House (prima parte davvero notevole, seconda decisamente in tono minore), il regista americano, che ha cominciato tra le assi del teatro della lontana cittadina di Bowie, in Maryland, ha attinto dalla superba Shirley Jackson e dal suo romanzo di culto "L'incubo di Hill House" (che ispirò "Shining" a Stephen King).
Nel solco degli omaggi (e delle ispirazioni), Flanagan ha cantato la gloria a H.P. Lovecraft e Stephen King, per sondare i meandri della fede oscura in The Midnight Mass (riuscito a metà a causa di qualche sbavatura di troppo nella sceneggiatura e nei dialoghi a tratti ridondanti), cercando di conquistare i cuori giovani con The Midnight Club (che ha solo strappato molti sbadigli e la cancellazione su Netflix), per poi precipitare tra i fanali della luce nera di Edgar Allan Poe con La caduta della Casa degli Usher (brand new su Netflix).
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Le tracce di Poe negli Usher, sette racconti e una poesia
La miniserie è divisa in otto episodi che prendono spunto da sette racconti (Una tetra mezzanotte, La maschera della morte rossa, I delitti della Rue Morgue, Il gatto nero, Il cuore rivelatore, Lo scarabeo d'oro, Il pozzo e il pendolo) e da una poesia di Poe (Il Corvo) - che i nostalgici degli anni Novanta ricorderanno trasposta (e interpretata) sul grande schermo nell'omonimo film con il compianto Brandon Lee - rimodulati e sigillati nella storia della numerosa famiglia Usher (anche il titolo della miniserie prende il nome da un racconto dell’autore) proprietaria di un'azienda farmaceutica guidata da due fratelli, Roderick e Madeleine Usher, la cui sopravvivenza è minacciata da una donna decisa a fare piazza pulita.
L'ossessione dell'America per l'ossicodone
E qui apriamo una breve parentesi. Flanagan, ambientando la storia ai giorni nostri, ha scelto di attingere dalla cronaca e in particolare dallo scandalo, realmente accaduto, che ha travolto la Purdue Farm, condannata per la vendita di oppioidi molto potenti (l'Oxycontin) a rilascio graduato, spacciati per antidolorifici comuni. Questo ha provocato, solo negli Usa, ben 600mila decessi accertati e milioni di tossicodipendenti. Il tema, è stato ampiamente raccontato da due serie diverse: Dopesick (su Disney+) con un grandioso Michael Keaton, e PainKiller (su Netflix) che vede il ritorno sullo schermo di Matthew Broderick.
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Cavalcando l’attualità, Flanagan sviscera il meglio di Poe (c’è anche un riferimento al romanzo incompiuto Gordon Pym) plasmando una storia cupa che scava nel ventre cicatrizzato di un'America ferita da accadimenti che ancora oggi perpetrano i loro effetti venefici, e confeziona una serie ben fatta che solo a momenti mette qualche piede in fallo. Il regista dà il meglio di sé quando sperimenta e non si attiene al compitino, quando esce dal recinto e gioca con i silenzi rendendoli pieni di attesa. Al contrario appare debole nei passi lunghi, quando cede alla tentazione di accentuare, insegnare, dire troppo quando non ce n’è alcun bisogno, perché se un cuore sepolto batte dietro una parete, si sentirà comunque.