Di questa serie se ne parla da anni. Il progetto, a un certo punto, dopo lo slancio iniziale era stato rimandato alle calende greche (ça va sans dire). Lo script, in qualche modo, andava a toccare il tema della fede - terreno insidiosissimo e a rischio politically correct - e Netflix ha preferito temporeggiare piuttosto che impantanarsi in una potenziale polemica senza fine. Dopo qualche stagione di scrittura e riscrittura, finalmente, la serie britannica, che vede la firma e il suggello di Charlie Covell, l’autore di The End of the F***ing World, ha visto la luce divina dei piccoli schermi ed è approdata sul gigante dello streaming da una settimana appena.

Covell dipinge un presente distopico e mitologico, in cui gli dei, al gran completo, guidano il mondo, ma non indossano pepli e non cavalcano destrieri, non piluccano uva e non si trastullano tra colonnati e ruscelli, ma indossano jeans e vestaglie di seta, anfibi e Rayban; parlano al cellulare e vengono serviti e riveriti covando una insistente gelosia nei confronti dei sudditi umani.

C’è Dioniso, figlioccio inquieto in cerca di approvazione, c’è Poseidone umido omaccione che se la fa con Era alle spalle del padre, c’è Arianna che scopre che il padre Minosse pur di sopravvivere ha compiuto un gesto terribile, ci sono anche le tre terribili Moire in versione centauri del Minnesota.

Su tutti regna Zeus, lo splendido Jeff Goldblum, signore dell’Olimpo, vendicativo, indolente, annoiato come un multimiliardario qualunque, assuefatto alla ricchezza, affiancato dalla moglie Era, casalinga disperata deluxe edition. La sua unica preoccupazione, mentre ciabatta per la sua magione, è che gli umani non lo preghino abbastanza e per questo si diverte a colpirli con epidemie e uragani disastrosi. «La paura aumenta la fede» ama dire.

È un padre distratto di figli sparpagliati tra la Terra e l’Olimpo; pessimo educatore, affettuoso a momenti, deluso dalla prole, si rifugia tra le gonne delle amanti poi trasformate in animali dall’ira funesta di Era. La sua vita scorre nel lusso e nei vizi fino a quando una ruga sospetta spunta sulla sua divina fronte, presagio funesto che potrebbe preludere alla sua caduta e all’inizio, appunto, del caos.

Voce narrante, e mastice della storia, è Prometeo. È lui che, ora crocefisso su una roccia, ora ospite a bordo di piscina di Zeus, trama per detronizzare il dominus e consegnare il mondo agli esseri umani (perché lo rovinino con le loro stesse mani, aggiungerei). Le sue pedine sono Orfeo ed Euridice: lui cantante pop affermato, lei moglie scontenta che finisce sotto un camion. Quello che accade, of course, è la corsa di Orfeo verso l’Ade per riportare in vita l’amata (che invece stava per lasciarlo).

Se pur l’idea è molto gradevole e il materiale che l’ha ispirata ovviamente grandioso, il risultato è decisamente sottotono. La trasposizione dei miti greci, con tutti i loro nomi altisonanti declinati nella modernità, appare molto forzata. A tratti più simile a una lezione del ginnasio fatta durante un’autogestione. I personaggi sono davvero poco credibili, c’è qualche picco che mantiene l’interesse alto (il viaggio in bianco e nero nell’Ade, di Euridice, che orribilmente chiamano Riddie è la parte migliore), il resto sembra una burla da ricreazione, una barzellettina per intenditori di frammenti epici e tragedie, da raccontare alla pizza col corpo docente. Per dirla tutta, una puntata di “Pollon” vale cento Kaos.