Il film nato dalla collaborazione tra il premio Oscar 2024 e il Nobel per la fisica esplora concetti complessi come buchi neri, wormhole e viaggi nel tempo, rimanendo fedele alla scienza. Ecco i segreti e il dietro le quinte dell’opera più interessante del regista inglese
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La sua Odissea nello spazio, Christopher Nolan l’ha avuta in dono e scalata come una montagna, prima di concedersi il lusso di metterla in scena nel modo in cui l’avevano immaginata in tanti.
Nell’ottobre del 2005, Kip Thorne, Fisico in ascesa e padre di una figlia adolescente, venne coinvolto nel progetto di un film sci-fi dalla sua ex fidanzata Linda Obst, produttrice di pellicole di successo come “La leggenda del re Pescatore” e “Flashdance”.
L’amico e collega di Thorne, lo scienziato e divulgatore, Carl Sagan, gli aveva raccontato meraviglie della sua esperienza a Hollywood come consulente per la stesura dello script di “Contact”. Linda Obst voleva replicare con Thorne e lo scienziato accettò con qualche riserva. Della storia parlarono per notti intere, e ogni volta che si incontravano, lui e Linda, buttavano giù delle idee.
I Buchi neri nella storia
Thorne, futuro premio Nobel per la Fisica (nel 2017), voleva incentrare la storia sui buchi neri, i wormhole, le onde gravitazionali, creature appartenenti alle cinque dimensioni e soprattutto la gravità, tema che sarà centrale nel film. «Ogni cosa preferisce vivere dove invecchia più lentamente. E la gravità la conduce proprio là» disse lo scienziato spiegando la Relatività generale di Einstein, perché il tempo scorre in modo molto più lento nelle vicinanze di una massa. E la massa di un Buco nero è pantagruelica. «Un Buco nero è fatto di tempo distorto e spazio distorto».
Questo gancio del tempo, unito ai famosi “cunicoli” spaziotempo, che avrebbero permesso di far viaggiare i protagonisti coprendo distanze siderali, furono tra le prime idee a essere fissate.
Thorne desiderava che la sceneggiatura fosse fedele ai criteri di una scienza reale o di poco oltre la conoscenza attuale. Nulla doveva violarne i principi.
Il passo in avanti di Steven Spielberg
Steven Spielberg venne contattato subito. L’agente del regista di Cincinnati, entusiasmato dall’idea del film, fece inviare il “trattamento”, ossia la storia in poche pagine, a Spielberg immediatamente. Sembrava proprio pane per i suoi denti. Nel marzo del 2006 il regista dello Squalo e di E.T, era a un passo dal firmare il contratto. Spielberg organizzò un grande forum che vide riuniti diversi scienziati per discutere lo script.
Al gruppo si unì uno sceneggiatore, si chiamava Jonathan Nolan, ma tutti lo conoscevano come Jonah. Insieme a suo fratello Christopher, aveva scritto “The Prestige” e “Il Cavaliere Oscuro”, e i due sapevano il fatto loro. L’incontro con Jonah servì a Thorne per superare alcuni limiti che credeva invalicabili. Quando Jonah Nolan gli proponeva di spingersi a considerare alcune possibilità che lambivano la fantasia, Thorne prima scuoteva il capo, e poi restava sveglio tutta la notte per pensare a una base scientifica che potesse reggere quella nuova idea.
La lunga strada verso il primo ciak diventò sempre più impervia.
Uno sciopero degli sceneggiatori bloccò la fase di scrittura per mesi, Spielberg e la Paramount non trovarono un accordo e tutto sembrava destinato a dissolversi come una nube di gas.
L’entrata in scena di Christopher Nolan
A quel punto entrò in scena Christopher Nolan, fratello di Jonah, che accettò di dirigere il film dopo l’addio di Spielberg. Per produrre “Interstellar”, due acerrime rivali, la Paramount e la Warner Bros, si strinsero la mano. E fu un piccolo miracolo, almeno per Hollywood.
L’epopea spaziotemporale di Interstellar varca il decennio dalla prima proiezione e resta il miglior film del regista inglese, amanti degli incastri, dei salti dimensionali e mnemonici, che pur ha firmato opere interessanti, da Memento a Inception, dal nodoso Tenet fino al trionfo di Oppenheimer. Tutti, a ben guardare, un passo indietro rispetto a Interstellar.
La musica di Interstellar
Come sempre accade nelle sue opere, Nolan affida alla musica, composta e diretta da Hans Zimmer, un posto privilegiato. Onnipresente, permea ogni scena, incombe e sovrasta lo spettatore, a volte quasi copre i dialoghi, stordisce come fa l’om, la sillaba sacra ai buddisti, che vibra nel cervello rendendolo aperto a visioni di nuovi orizzonti. A Zimmer consegnò un foglietto breve: «Era una favola che riguardava un padre e una figlia e sul significato di essere genitore» raccontò il compositore.
«Nolan venne a casa mia, gli suonai quello che avevo scritto mentre era seduto sul divano, e gli chiesi ovviamente cosa ne pensasse. Lui mi disse: “Sarà meglio che lo faccia davvero questo film”».
Tra meccanica quantistica, astrofisica e… apocalisse
I riferimenti di Nolan sono innumerevoli, come labirintico è la fusione di concetti della Meccanica quantistica e dell’astrofisica, con gli archetipi delle opere post-apocalittiche: la Terra malata, la Natura che si ribella, l’uomo succube delle conseguenze delle sue azioni, in fuga dal mondo che ha devastato.
La storia
Il film si apre su un paesaggio rurale funestato da tempeste di sabbia. Cooper (Matthew McConaughey), una volta pilota della Nasa, adesso fa il contadino, perché nel mondo di questo c’è bisogno: non di menti, ma di braccia, per coltivare quello che resta e salvaguardare le riserve alimentari. Nello scenario di ineluttabile fine, perché non contro un nemico si combatte, ma contro un sistema innescato da decenni di noncuranza, che non si può fermare né annientare, irrompe la speranza per mano di una fantasma che sposta oggetti nella stanzetta di una bambina, Murphy, figlia di Cooper, in procinto di rindossare la tuta spaziale per cercare un nuovo mondo adatto a ospitare l’umanità peregrina. Grazie a coordinate disegnate dal fantasma Cooper arriva nell’ultima sede nascosta della Nasa, dove uno scienziato (Michael Caine), è al lavoro per trovare il modo di usare le anomalie gravitazionali per spostare l’umanità sopravvissuta verso un mondo abitabile e nuovo. Il viaggio di Coop potrebbe essere senza ritorno. Sua figlia Murph cerca di fermarlo, di trattenerlo, ma lui le chiede di lasciarlo andare, e le promette che ritornerà da lei.
Le scene iconiche
Sulla lavagna che vediamo inquadrata nel film, le equazioni sono scritte da Thorne in persona, e rappresentano l’accelerazione di almeno 11 km/sec per lasciare la Terra.
Iconica la scena del Buco nero, Gargantua, nei cui pressi si muove la navicella con gli astronauti deputati a trovare un mondo abitabile. Lì il tempo si dilata mentre si restringe lo spazio, tanto che pochi minuti su pianeta delle maree, valgono 25 anni nell’astronave che ospita lo sfortunato pilota rimasto ad attendere i compagni in una lunghissima e quasi disperata solitudine.
Avanti e indietro nel tempo
Nolan è il maestro degli incastri dimensionali, temporali, spaziali, che rintronano, fuorviano e meravigliano lo spettatore facendogli perdere il filo per poi riagganciarlo come un cosmonauta che abbia perso il filo di collegamento con la navetta e venga riacciuffato in extremis.
Le distanze siderali si traducono nel flessuoso tessuto dello spaziotempo e dei suoi paradossi, nelle relatività di Einstein, nei wormhole, nell’iperspazio, nel grande mistero dei buchi neri, nei saggi di Hawking, in quelli sulla simmetria, la cosmogonia, nelle speranze dell’uomo e della sua meschinità scambiata per spirito di sopravvivenza. Nel film si va avanti e indietro nel tempo, alla luce del Gargantua che anticipò la visione del buco nero fotografato qualche anno dopo dall’Event Horizon Telescope nel 2019. Nolan ha cercato la sua terra promessa confezionando l’incubo di un’umanità spersa e polverosa, stanca e negazionista, salvata da un’altra civiltà, non aliena, ma vicina e nata sotto una buona stella.