Il quinto capitolo dell'archeologo creato da Spielberg e Lucas è un disastro senza precedenti. Non basta la buona volontà di Harrison Ford (ringiovanito in alcune scene dall'Ai) a salvare un film che va solo dimenticato
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“Indiana Jones e il quadrante del destino” è un omicidio con l’aggravante della nostalgia, dell’accanimento, dei futili motivi. Nonostante il battage pubblicitario e un bel pacco di incomprensibili recensioni entusiaste, l’unica cosa che si può fare, una volta usciti dalla sala, è dimenticare di aver visto il film, fingere di aver dormito, aver perso i sensi, aver sognato.
È l’unico atto di misericordia che dobbiamo concedere a un bellissimo personaggio assassinato dalla mancanza di idee in un cinema che non fa che creare trigesimi (la resurrezione dei Ghostbusters - in senso stretto -, la riesumazione delle tre di Sex and the City in versione Rsa di extralusso). Non è più concesso al pubblico di mantenere stretta la memoria del passato, perché in una sorta di “cura Ludovico”, ci si trova costretti ad assistere alla decadenza, alla vecchiaia, allo sfinimento di bellissime storie ridotti a stracci, a protagonisti scorticati del dorato e ridotti a ferrivecchi.
Tuttavia, non si dovrebbe mai demolire senza concedere margini, pur piccolissimi, a un’opera (qui più prodotto) che ha richiesto sforzi, buona volontà, un dispiegamento tecnico non di poco conto, quindi va detto che il cappello di feltro marrone e la frusta di Indiana Jones, guadagnata dopo un duello con un leone nel vagone di un treno, sono perfetti. Il resto è polvere da soffiare nel vento (e il flop al botteghino di questo film ne è la prova).
Con Indiana Jones da quarant’anni alla ricerca del nostro sogno perduto
La grande caciara
Partiamo da un assunto: il film è scritto male. Malissimo. Dal soggetto alla sceneggiatura, passando per la regia di James Mangold (che sarà pure un fan della saga, come ha detto, ma in alcuni momenti non sapeva proprio quel che stava facendo) gli autori non sembrano conoscere per nulla il personaggio, ma soltanto cosa fa, per cosa è famoso, concludendo (sbagliando) che tutto giri intorno a inseguimenti e scene d’azione.
Ed ecco perché il film è una caciara continua dominata dal caos. Non c’è più traccia di logica, di magia, di un sottile esoterismo che dovrebbe disegnare gli orli della storia anche dei momenti concitati. È tutto un fuggi per mare, fuggi per monti, fuggi per strada, con qualche battuta da sit-com buttata a casaccio. Non si coglie, neanche ad aguzzare vista e udito, l’ombra di quella comica ironia che penetra a tratti solo dalle strette fessure dell’autocitazionismo (bocconcino lanciato agli spettatori "anta" che a un certo punto, soprattutto nel finale, è dannatamente amaro). Steven Spielberg si è tirato fuori, fin da subito, dalla regia, George Lucas dalla sceneggiatura, e senza i suoi padri fondatori il personaggio è affondato nelle sabbie mobili, abbandonato senza pietà al suo destino (e senza bisogno di alcun quadrante).
Lo zampino dell'Intelligenza artificiale anche nella sceneggiatura?
Risultato alla mano, pare proprio che l’Intelligenza artificiale abbia messo lo zampino, non solo nell’opera di ringiovanimento facciale di Harrison Ford (che diventa un perfetto quarantenne, anche se l’effetto esteso alla voce restituisce un risultato decisamente straniante), ma anche nello script. Se qualcuno si stesse ancora chiedendo come sarebbe un film scritto interamente da ChatGpt qui potrebbe avere la risposta: una scarna sequenza di frame che ti fanno desiderare che tutto finisca in fretta. Se non è così, se non è colpa dell'Ai, allora la famosa scuola americana degli screenwriter americani, è sicuramente al tramonto.
Il Quadrante di Archimede
“Indiana Jones e il quadrante del destino” ruota intorno all’ultimo cimelio storico preso di mira dai nazisti. Dopo l’Arca dell’alleanza (Indiana Jones e i predatori dell’Arca perduta), la pietra sacra shivalinga trafugata dal santone indiano (Indiana Jones e il tempio maledetto) e il Sacro Graal (Indiana Jones e l’ultima crociata), facendo un rapido passaggio su un quarto, dimenticabile atto, che parla di un certo teschio di cristallo, arriviamo qui ad Archimede.
L’Anticitera (o Antikythera) è un antichissimo meccanismo definito anche come un “calcolatore astrale portatile” viste le dimensioni ristrette, attualmente conservato nel museo archeologico di Atene. Nel film diventa una macchina del tempo che rischia (ovviamente) di cadere nelle mani sbagliate (dei seguaci del Fuhrer). Indiana Jones torna a combattere così i nazi, anche se ormai siamo negli anni Sessanta e l’uomo sta sbarcando sulla luna. Certi nemici sono come i reumatismi non ti mollano mai.
Mister Henry Walton... chi?
Poco prima che parta il gran circo Barnum del di-tutto-di-più, vediamo il professor Jones invecchiato e prossimo alla pensione. Nel suo ultimo giorno di lavoro, i colleghi gli regalano una torta e un orologio, come un Fantozzi qualsiasi, e lo congedano. Nessuno lo chiama Indiana, ma addirittura Henry Walton Jones (che è il suo nome di battesimo ma qui sa di lapide con data di nascita e morte incise sopra). È un uomo separato, stanco e curvo che guarda la tv e si lamenta del chiasso nelle scale. A tirarlo dentro all’avventura è tale Elena, la figlia di un suo vecchio amico ossessionato fino alla morte da questo quadrante di Archimede. Se si dovesse spiegare a un bimbo di sette anni cosa non funziona del film gli si direbbe solo: non c’è una storia bella.
Un'indigestione di effetti speciali
Mai come in questo capitolo gli effetti digitali infastidiscono tanto. Anche se nei vecchi Indiana Jones, i bordi del green screen (forse in un caso del blue screen) erano sfacciati (leggi la scena del dirigibile nel terzo capitolo), l’effetto era non solo accettabile, ma anche godibile, simpatico. E poi, va detto, si fa davvero fatica a credere che un uomo di 80 anni che attraversa a piedi la strada con passo incerto all’inizio del film, possa spingere il corrispondente di un’Ape Cross a 120 chilometri orari per le strade di Tangeri, volando sui tetti. Insomma, gli spettatori saranno anche affezionati a Indiana Jones, ma non sono scemi.
Cercasi sceneggiatori
L'archeologo non è quello di un tempo, non poteva esserlo, ed era corretto darne un’immagine diversa. Ma se l’obiettivo era puntare alla maturità dell’eroe, tutto andava scritto cercando di rispettare la nuova dimensione di un personaggio che non poteva più essere quello della fuga in motoscafo a Venezia.
Con un budget di 300milioni di dollari (tanto è costata la produzione alla Disney che ha rilevato per qualche miliardo la Lucasfilm) un gruppetto di buone penne, che regalasse un’anima a un ruolo così importante, si poteva trovare. Hanno preferito non farlo e puntare (sbagliando) su altro.
Le quattro note di Williams
Nel film non c’è neanche un tema musicale creato ad hoc, l’emozione sale con le classiche quattro note di John Williams e con il Marion’s Theme (eredità dell’Arca perduta), poi anche le famose orchestrazioni che seguono le azioni, sembrano appannate, lontane, assenti. La partner in crime di questo capitolo, Elena, interpretata dall’attrice di “Fleabag” Phoebe Mary Waller-Bridge, è insopportabile dall’inizio alla fine, non c’è un solo momento che ispira rabbia o amore o simpatia o fascino. E persino il ragazzino, Teddy, non suscita alcuna empatia, è solo uno strumento usato per tirare fuori dai guai i due protagonisti.
Si sente la mancanza di una bella cattiva (Elsa Schneider), di una spalla che dica cose favolose («Lasciate che i miei eserciti siano le rocce, gli alberi e i pennuti del cielo»), di una scena da conservare («solo il penitente potrà passare»), di qualcosa da sognare (la vita eterna o una cavalcata al tramonto). Quando il business decide di strizzare gli eroi, niente li può salvare, neanche un sorso dal sacro Graal.