Il capolavoro del regista giapponese, su Netflix, è un viaggio tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti. Il maestro dell’animazione si è ispirato alla Divina Commedia, all’arte e al cinema italiani
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Chi è Hayao Miyazaki se non un mago che può accedere al mondo dell’invisibile; chi è se non giovane e un Matusalemme insieme, padre di creature brulicanti tra le ombre di dimensioni fantasmagoriche e leggendarie, di mostri trasformati dal contrappasso o dall’incanto, popolo di dimore galleggianti, in attesa di treni che scorrono nel nulla. Lui che per tutta la vita ha cercato di mettere in equilibrio questo mondo e quell’altro, quello dell’immaginazione che balla nel sogno, fluttua sopra e sotto, ci permea e scompare, adesso si chiede forse, cosa lascerà, a chi.
Il maestro dell’animazione giapponese con “Il ragazzo e l’airone” (su Netflix) si dipinge allo specchio senza sconti, discendendo negli inferi per ritrovarsi o ripulire la memoria dai resti che, come tocchi di carbone, insozzano la strada per la purificazione.
La sua catabasi è un creativo omaggio a Dante e alla sua possente Divina Commedia, che Miyazaki incide nell’arco di passaggio per un’altra dimensione, estrapolando un frammento del Terzo Canto, quando il Sommo Poeta si incammina tra la perduta gente, nella città dolente.
Il dolore, nell’anime, è quello che si porta nel cuore il giovane protagonista Mahito che ha visto le fiamme avvolgere l’ospedale con sua madre dentro, il dolore è il pensiero volto al futuro incerto, cristallizzato nel titolo originale “Kimi-tachi wa dō ikiru ka”, E voi, come vivrete? sembra chiederselo Miyazaki, sembra chiedercelo.
Intanto che la domanda resta sospesa, affrontiamo da spettatori il percorso che conduce giù, nel mondo alternativo, dove qualcuno muore o si perde, mentre l’amato affronta il pericolo per riportarlo sulla Terra.
Si avventurò nell’Ade Orfeo per Euridice, nel mito ellenico, lo fece per la cultura giapponese e shintoista il dio Izanagi quando discese nel regno dei morti, lo Yomi-no-Kuni, per tentare di riportare Izanami nel mondo dei vivi. Neanche quella fu una storia a lieto fine. Al suo arrivo, Izanagi scoprì che Izanami aveva mangiato il cibo del regno infernale, trasformandosi in un demone. Vedendo che la sua amata era ormai corrotta e irriconoscibile, Izanagi fuggì, lasciandola nello Yomi-no-Kuni, dove Izanami divenne la terribile regina del mondo sotterraneo.
Nella cultura nipponica, la religione shintoista amalgama la benevolenza degli spiriti quieti, alla vendetta persistente di quelli malevolmente trapassati; la Natura è onnipotente, eterna e splendente; laguna e rifugio, montagna e oceano, dimora del divino che riposa anche nelle cascate o sotto i rami di un ciliegio, con la distruzione dell’uomo che infiamma e uccide. La Natura uccide e guarisce, e nell’anime avvolge tutto, un po’ madre e un po’ matrigna.
Mahito deve sopportare il lutto e accettare il fatto che suo padre abbia ritrovato la felicità accanto a un’altra donna, sorella minore di sua madre, da cui aspetta un bambino. Orgoglioso e silenzioso, preda dei bulli a scuola, circondato da sette vecchine che si affaccendano nella grande casa, scorgerà una torre avvolta dalle rovine, passaggio per quello che la terra nasconde di sotto.
Un airone cinerino, che nel mito nipponico è un ponte che unisce il mondo dei vivi con quello degli spiriti, lo pungula e provoca, con parole beffarde, pronunciate dalla sua bocca dentata che nasconde uno spiritello che gli farà da guida, come un goffo Virgilio, per ritrovare la matrigna spersa nella foresta, affondata nel mondo di là.
Miyazaki irrompe con la sua forza immaginifica, come una cascata monumentale: finendo nella sua corrente, a un certo punto non si può più remare, solo accettare il destino che attende tra le rapide azzurre. La valanga allegorica che l’autore ci regala, richiede fede e fiducia, allarga la mente, rimuove gli ostacoli che questa ci pone come limiti cammin facendo. Così, in questo turbine, ebbri di storie, labirinti e piani sospesi da scalare, volti e folletti, gnomi e spiritelli, elaboriamo a gettito continuo la stanza segreta in cui la matrigna giace, e poi veniamo sospinti oltre, verso pellicani che sbranano le anime dei non nati (i Wara Wara) e vengono dati alle fiamme; e ancora in su, in viaggio, verso gli spazi di De Chirico e i colonnati che gettano lunghe e sottili ombre sui marmi, a spiare dall’alto il mare, ancorati alla terra da una fune sottile, come l’uomo volante in 8 ½ di Fellini. La storia spinge e accelera e con una forza propulsiva rompe l’atmosfera e ci porta oltre. Rompiamo un’altra barriera, mentre ci sforziamo di trattenere tutte quelle immagini e quei concetti tra le braccia, prima che fluttuino via risucchiati dall’elaborazione sintetica e concreta che spazza l’astratto in una scrollata di spalle.
Rinveniamo nel mondo che prende da Carroll terribili meraviglie, in un regno, o porzione di questo, dove a comandare sono parrocchetti, pappagallini crudeli governati da un tiranno che lotterà con il grande vecchio, il prozio ctonio, scivolato nell’abisso, diventato divinità, responsabile dell’equilibrio che le sue pietre di marmo funereo non riescono più a tenere.
Per qualcuno la sfida metaforica, il confronto tra titani, è tra Miyazaki e il suo maestro Isao Takahata, che con lui fondò lo Studio Ghibli, scomparso qualche anno fa. Insieme ruppero gli schemi dell’animazione disneyana che imperava all’epoca, per inventare qualcosa di nuovo, di diverso.
In quella figura canuta e malinconica che attende un successore, in molti hanno visto anche un Miyazaki in attesa che questa grande eredità artistica venga raccolta. Forse è destinato a portarla nel mondo di là, lasciando qui solo le tracce del prima. Ma nella cultura giapponese shintoista, la morte non separa dal regno dei vivi, avvicina alla componente divina intrinseca all’animo che, se purificato, benevolo assiste e ovunque protegge.