La pellicola visibile su Netflix ha conquistato Venezia e anche i Golden Globe ma per la corsa all'Oscar dovrà vedersela con un Kenneth Branagh in grande forma che ha calato l'asso con il suo Belfast
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Poteva essere e non è stato. La perfezione tecnica c’è, senza dubbio. La maestria nelle luci e nei bilanciamenti, nei colori scuriti dall’esposizione bassa che ormai la fa da padrone nella digital era, nelle scenografie, nei movimenti macchina. Ma la storia resta una delle travi più deboli dell’impianto narrativo della brava Jane Campion che ci ha abituati a ben altre emozioni.
“Il potere del cane” (su Netflix) è un film tratto dal romanzo semi-autobiografico di Thomas Savage, per molti il suo capolavoro letterario. Non lo stesso per Campion che, per la cronaca, sta ricevendo plausi e premi per quest'opera che vede in scena un cast di attori di tutto rispetto: il sempre bravo Benedict Cumberbatch, Kirsten Dust, Jessie Plemons e Kodi Smit-McPhee.
A Venezia Campion ha alzato al cielo il Leone d’Argento, come miglior regia, e ai Golden Globe il film s’è portato a casa tra le categorie più importanti: miglior film drammatico, miglior regista e poi miglior attore non protagonista (McPhee). Adesso punta all’Oscar ma dovrà vedersela con un Kenneth Branagh in grande forma che ha calato sul tavolo il suo asso: “Belfast”, un drama in bianco e nero in cui il regista, grande scespiriano, qui si cimenta in una storia che lo tocca molto da vicino sullo sfondo di un Irlanda in tumulto al tramonto degli anni Sessanta.
Ma torniamo al “Potere del cane”, film dalle grandi aspirazioni, grandi orizzonti, ma piccola prospettiva. Siamo nel Montana, nel crepuscolo del vecchio West. In una terra temporale di passaggio tra l’antica prateria e il vicino crollo di Wall Street. È il 1925 e due fratelli, diversi in tutto, Phil e George Burbank, se la passano bene avendo ereditato un grande ranch dal padre. George sposa la povera Rose prendendosi carico del suo malinconico figlio. Ma gli equilibri in famiglia non reggono e il rapporto teso tra Phil e la cognata Rose porterà a una crisi senza sbocco.
Ed è proprio il conflitto, cuore della storia, che non ha sfogo abbastanza nello script, specie nelle dinamiche che dovrebbero accendere i fuochi del dramma e che finiscono per intiepidire appena le acque. Campion sorvola e non diventa mai immersiva con la conseguenza che tutto quello che accade appare quasi insensato o esagerato rispetto a quello che la regista ci concede di osservare.
Meglio recuperare di Jane Campion il magnifico “Un angelo alla mia tavola” (Leone d’argento a Venezia nel 1990), un biopic, ispirato e intenso, sulla vita della scrittrice Janet Frame costretta a dividere il suo talento con la pazzia con cui il mondo voleva seppellirla. Sfortunatamente è un film bandito da ogni canale streaming, ed è pressoché introvabile. Ma le cose belle, possiamo dirlo senza retorica, si fanno sempre desiderare più delle altre, ed è per questo che si chiamano perle.