L’opera del regista messicano, realizzata con un incredibile stop motion, non ricalca la storia del burattino di Collodi ma la riscrive in chiave antifascista e il risultato è straordinario, commovente e senza “morale della favola”
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Ha impiegato quindici anni per intagliare il suo pezzo di legno. Infine, Guillermo del Toro, l’ha guardato per intero una volta e poi ancora e poi ha detto a tutti che era quello che aveva sempre sognato, quello che avrebbe voluto vedere da bambino. E anche noi. Il suo dono di Natale si chiama “Pinocchio” e ha spiegato le vele dal porto di Netflix col buon vento.
Il regista del “Labirinto del Fauno” regala una rilettura che va oltre ogni aspettativa (e timore). L’assenza di timore reverenziale davanti al mito collodiano gli ha permesso di entrare nella favola e scriverci dentro. Il risultato è un’opera straordinaria, intrisa di personale, fedele nella traccia ma infedele (grazie al Cielo) nell’interpretazione. Pinocchio qui non è il monello che viene raddrizzato dagli eventi funesti che, suo malgrado, innesca.
È solo un bambino strabordante di emozioni irrefrenabili che con la sua generosità d’animo incide, come uno scalpello nel legno tenero, nel cuore degli altri. Gli adulti intorno a lui, incapaci di gestire le proprie anime scure, saranno travolti da una bellezza capace di smuovere persino la roccia appuntita del dolore più grande che si possa vivere: la perdita del proprio bambino.
Storia di un padre e un figlio
È una storia di padri e figli quella che Del Toro mette in scena. Semplicemente. Padri che sbagliano, urlano, mettono il peso delle loro aspettative sulle spalle dei piccoli senza sapere quanto questo possa curvarne la schiena. Padri che hanno paura e per questo perdono il controllo e poi si pentono ma non riescono a smettere di ferire. Pinocchio è amore distillato che non conosce morte così come non la conoscono i bambini che vivono il presente disinteressandosi delle tribolazioni future. Hanno il loro “ora”. Ora vogliono essere amati, ora amano, ora camminano, ora chiedono, ora abbracciano. Il loro mondo è una realtà in cui le luci sono sempre a mezzogiorno e non creano ombre.
Un Pinocchio antifascista e la balena nello Stretto di Messina
Del Toro riscrive la storia e la ambienta nel Ventennio fascista con grande coraggio a audacia. C’è un Mussolini caricaturale, col mento marziale, disinnescato dall’ingenuità di Pinocchio che trasforma il “duce” in “dolce” in uno spettacolo marionette che ricopre di satira il nero di una divisa, ridicolizzandola a dovere. C’è una balena che somiglia a un mostro abissale, che s’agita in uno Stretto di Messina tempestoso e favolesco, il grillo scrittore che fa da spirito guida, Vita e Morte mostri ancestrali intrecciati alla natura, e un campo di addestramento per giovani fascisti in luogo del Paese dei balocchi dove i monelli non diventano ciuchini ma agnelli sacrificali per volontà degli adulti. E poi c’è la sofferenza, il lutto insormontabile e un padre, Geppetto, che si abbrutisce e diventa anche sgradevole, ubriacone, perduto. Il regista messicano mette dentro l'opera tutti i suoi fantasmi, i suoi punti irrisolti, il suo sé bambino, il rapporto con il padre anche il suo animo religioso quando Pinocchio, a confronto col Cristo in croce fatto di legno, come lui, non capisce perché amano quella statua e odiano lui considerandolo un reietto da sbattere ai margini. Finalmente un autore fa l’autore e il risultato è la cosa più bella che lo schermo potesse regalarci in questo Natale.
Tutti i Pinocchio dello schermo
La versione più fedele, romantica, ancora oggi la più bella trasposizione su schermo del romanzo di Collodi, è quella di Comencini: “Le avventure di Pinocchio”, con le musiche di Fiorenzo Carpi. Lo sceneggiato Rai andò in onda nel 1972 con un cast eccezionale: Nino Manfredi, Gina Lollobrigida, Franco e Ciccio e un cameo di Vittorio De Sica. La Disney, sul ciocco di legno di pino, ci aveva messo lo zampino molto prima, nel 1940, firmando il secondo film animato “classico” dopo “Biancaneve e i sette nani”. Per un soffio il primato non fu scippato dall’italiana CAIR (Cartoni Animati Italiani Roma) che nel 1935 aveva messo in cantiere un’animazione ispirata a Pinocchio. Il progetto naufragò per mancanza di soldi lasciando ben 15mila disegni orfani di vita. Recuperò nel 1971 Giuliano Cenci (detto “il Walt Disney italiano”) con il cartone animato “Un burattino di nome Pinocchio” a cui parteciparono in fase di stesura anche i nipoti di Collodi. Tra le animazioni spicca il tenebroso “Le nuove avventure di Pinocchio” (celebre la sigla “naso di legno, cuore di stagno, burattino…”) anime giapponese della Tatsunoku datato 1972.
Dal classico alla fantascienza
Il primo regista a dare un volto in scena a Pinocchio fu Giulio Cesare Antamoro (Gant), che nel 1911, vestì l’attore Ferdinand Guillame con l’abito di riso e un naso lungo e all’insù. Steven Spielberg, in “A.I”, il burattino l’ha colorato di fantascienza rispolverando un progetto su cui aveva messo gli occhi Stanley Kubrick. In Italia, Francesco Nuti, nel 1994, c’ha provato con lo sfortunato “Occhiopinocchio” a metterci del suo ma senza grandi risultati. Inghiottiti dalla balena del mezzo flop anche Benigni e Garrone che nel 2019 mise in campo un esercito di esperti in effetti speciali senza riuscire a restituire un briciolo della magia di Comencini. Molte operazioni, squisitamente commerciali, non hanno fatto che ricopiare un narrato ormai logoro dalle troppe riproposizioni. Poi è arrivato Guillermo Del Toro e ha fatto risplendere di luce nuova una favola che non ha morale, bugie ma solo bellezza.