Immersa negli anni Ottanta di New York, la storia racconta di un burattinaio sconvolto dalla scomparsa di suo figlio. Tra dramma familiare e mistero, l'opera non riesce ad arrivare dove vorrebbe
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C’era una volta un burattinaio a New York. C'era una volta la Grande Mela di una volta. Lì non si vedono, agli incroci tra le Streets e le Avenue, cellulari o visori Google, ma beveroni e valigette, visiere da tennisti, giacconi fluo, Ray Ban fuori misura. L’aria è condensata nella pasta di una similpellicola vintage, ultraretro, patinata e polverosa, scelta per colorare “Eric”, ultima produzione Netflix. Non è un thriller, anche se un bambino sparisce nel nulla. Non è un giallo, anche se il mistero aleggia in ogni angolo, da Manhattan a Brooklyn. È un family drama, un giro nel caos mentale di un uomo, un genio artigiano; un autore, inquieto ed egoista, depresso e sarcastico, bravo a far male a sé stesso quanto a chi lo circonda.
Vincent Anderson, è l’inventore di “Good Day Sunshine”, un programma di pupazzi animati, che spopola in tv. Il suo lavoro è creare burattini, li costruisce da zero; gli dà un nome e un carattere, poi li colloca in un angolo di studio che richiama un pezzo di Central Park, lì dove una volta andò con suo padre in uno dei rari momenti di intimità familiare che ricorda.
Le ferite di un’infanzia vissuta tra una ricchezza sfrenata e l’indifferenza genitoriale, si riaprono quando una mattina suo figlio Edgar, esce di casa per andare a scuola e fa perdere le sue tracce. La ricerca del bimbo si incrocia con la storia di un adolescente nero, di cui da mesi non si hanno notizie. Due misteri che hanno un peso diverso sull’opinione pubblica. Edgar è il nipote di un ricco uomo d’affari, figlio di un artista della tv; tutti sono in pena per lui e l'intero Dipartimento di Polizia è mobilitato dal primo all'ultimo agente; Marlone Rochelle è un adolescente nero che viveva di espedienti, di cui non importa nulla a nessuno, fuorché a sua madre.
Il detective Michael Ledroit, del Dipartimento Scomparsi, è sui due casi. Vive sulla propria pelle (nera) le conseguenze di una discriminazione sottile, ambigua, ma nonostante questo cerca con determinazione di far luce su un terreno oscuro fatto di corruzione e omertà.
I punti deboli
Punto di forza della serie (la sceneggiatura porta la firma di Abi Morgan mentre la regia è di Lucy Forbes) è senza dubbio l’interpretazione del sempre bravo Benedict Cumberbatch, che veste i panni dell’inquieto Vincent, il cui tormento non sempre, però, si sposa con una sceneggiatura robusta e, addirittura, in alcuni punti indebolita da scelte o squisitamente estetiche o illogiche.
“Eric”, in sei puntate tenta di esplorare a fondo le dinamiche padre-figlio, ma non ci riesce davvero. I personaggi che gravitano intorno alla storia-madre, appaiono a volte caotici o incompleti. Tutto sembra funzionale ad una deflagrazione che, tuttavia, non avviene mai. Non basta la costruzione raffinata di ambientazioni e fotografia, non bastano attori talentuosi, non basta neanche il bestione, il mostro Eric, disegnato dal piccolo Edgar (che ha la stessa vena artistica del papà) a dare lo slancio a una storia scarica. Eric è l’alter ego di Victor, un’ombra che lo perseguita ricordandogli i suoi fallimenti a ogni piè sospinto. Ha le fattezze di Sully, del cartoon Monster’s University, e la cattiveria di uno spiritello, ma nessuna o poca ironia e una cattiveria solo sfiancante e di nessuna utilità. La miniserie lascia, alla fine della visione, la sensazione di aver assistito a qualcosa di vacuo e inutile, che non dà e non toglie, a parte il tempo che si è impiegato per vederla.