Una stagione di passione a litigare con la Dad, le chat di classe, il panico dei contagi. Adesso come reduci di una guerra sanguinosa le luci delle aule si spengono
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Ne siamo usciti. Dall’anno scolastico più somigliante al Vietnam che a una formazione didattica. Inginocchiati con le braccia al cielo come in Platoon e la divisa macchiata dalle briciole di impasto dei cornetti sfogliati fatti casa, dobbiamo ammettere che il male assoluto non era il sabato ai gonfiabili a spolmonarsi: «Scendi da lì, rimettiti i calzini, vieni che ti asciugo col phon, è il momento delle pizzette…» ma le infinite mattinate che cominciavano con i collegamenti alle ClassRoom di Google e finivano a tarda sera a smadonnare contro il Registro Elettronico che non caricava i pdf.
Vedi a lamentarsi delle cornici Thun da regalare alle maestre che accade? Che ti piomba addosso una pandemia e il destino, per punirti, ti crea una nuova parola: dad, che non è inglese, è demoniaco, non è un papà nuovo che sa piegare gli angoli del lenzuolo senza farlo cadere quando il più è fatto, ma è un acronimo che ti inchioda a una sedia e ti fa maledire mezzo calendario mentre dall’altra parte della scrivania dodici colleghi in collegamento continuano a ripetere: «Mi sentite?» per sei ore di seguito.
Ne siamo usciti. Nonostante le connessioni che andavano in tilt dopo cinque minuti come una qualunque diretta su Dazn, nonostante le chat bollenti che annunciavano che nella classe del terzo piano la nonna di un bimbo era risultata positiva al virus e cominciavano le indagini interne per capire se era la nonna che abitava a Velletri o a Luzzi e si alternavano le dirette di Conte agli aggiornamenti sugli spostamenti della signora vista in giro una settimana prima che faceva la spesa al Conad.
Ne siamo usciti, con qualche cellulare in più comprato per riempire i pomeriggi dei bambini orfani delle attività extra che, nella vita di prima, riempivano sei giorni su sette. Chi l’avrebbe detto che avremmo ripensato con nostalgia ai pomeriggi in macchina ad aspettare la fine del judo, alla pioggia che ti prendeva mentre correvi a danza con un ombrello sbrindellato come un vecchio rametto di origano, al portafoglio da cui fluttuavano botte di cento euro per un body che ne valeva 7 (forse questo no), all’incastro tra la spesa, l’inizio dell’inglese e la fine dell’atletica dell’altra figlia.
Era tutto perfetto. I compleannini fuori provincia che quando digitavi l’indirizzo su Google Maps quello ti rispondeva: «Ah, buh». Quanta bellezza nascosta celavano le ludoteche - affacciate nei deserti di zone industriali abbandonate da Dio e dagli uomini - i tavoli apparecchiati con roll di wurstel verdognoli forse per le luci al neon da macelleria o perché surgelati un decennio prima, le urla degli animatori travestiti da Minions che cantavano «Qué ves?» a un volume così disumano che piegava il tempo e lo spazio intorno a noi, i capelli dei bambini grondanti di sudore poi ghiacciati dalla tramontana che aspettava appena fuori dalle porte delle ludoteche.
Quanto romanticismo c'era nell'accordo tra moglie e marito che decidevano a sasso-forbice-carta a chi toccava accollarsi la quattordicesima festina de mese e quale rene era rimasto da impegnare. Infine, quanto era rassicurante la classica, bella, febbre normale di novembre, che quattordici telefonate al pediatra, cinque post su facebook nei gruppi di pancine dopo, Tachipirina e via, si guariva.
Invece ci è toccato soffrire proprio tutto. Il terrore di quel messaggio nella chat di classe: «Mamme, scusate, ho un aggiornamento…» detto con un colpo di tosse finale, suonava mille volte più temibile del classico avvertimento alle otto meno un quarto di sera: «Mamme per domani dice la maestra di portare un cartoncino Bristol, grammatura 5, color Terra di Siena con bordi dorati e due cherubini che suonano l’armonica, mi raccomando!!!!».
Siamo passate dai consigli su dove comprare il tappetino dei “Me contro te”, alle farmacie con gli sconti migliori sulle mascherine FFp2; dalle sane e infinite liti su quanto mettere in fondo cassa per la carta igienica e i pennarelli Giotto, se 8,50 euro o 9,50, alla spiegazione scritta e certificata di tutte le allergie dei figli che giustificassero il moccio al naso e la presenza in classe.
Abbiamo scoperto che il nemico non era il libro d’inglese con Cd-rom incorporato ma il Tar, il tribunale amministrativo, fino a un anno fa una cosa vagamente conosciuta come quella entità che respingeva i ricorsi delle squadre di calcio a fine campionato, divenuta d’improvviso una divinità che decideva il destino di tutti, che non si vedeva e non si toccava perché lavorava in smart working. Non è stato facile aspettare che la situazione migliorasse, e quando uno è disperato crede a tutto: agli oroscopi, alle stelle, a Spirlì. Due giorni e sarà triplice fischio. Si spegneranno le luci delle aule, si conserveranno in un cassetto i disinfettanti e, finalmente, si chiuderanno anche le finestre.