Sono trascorse dieci estati dal debutto in sala, anche se il tempo di solito si conta in primavere. In primavera la vita rinasce, d’estate arde. Così è stato per “Anime nere”, prima best seller di Gioacchino Criaco e poi film straordinario e potente per la regia di Francesco Munzi, che esordì a Venezia nel 2014 infiammando pubblico e critica.

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«Serve il tempo del dimenticare, del consumare secoli e mondi fino a quando la Madre risorge. I figli dei boschi convivevano con la bestemmia, con la profezia: sarebbe arrivato il vento, l’ultimo respiro dell’est, e sarebbe iniziato l’esodo. Migliaia di anni con un destino scritto, migliaia di anni a battersi contro il destino. La tragedia è questa, la consapevolezza di essere seduti a un tavolo di poker col più grande baro che si sia mai visto a Las Vegas. Spararsi in testa prima che mostri il suo punteggio impossibile da superare. Chapeau, maestro Munzi». Sono le parole scelte da Criaco per celebrare il decennale dell’opera tratta dal suo romanzo.

Il film girato tra Milano, Amsterdam e Africo - che vede nel cast grandi attori come Peppino Mazzotta, Marco Leonardi e Fabrizio Ferracane - non ci presenta un Sud patinato; non è una brochure di promozione turistica, non fa da richiamo alle masse di curiosi con sandali e cappellino, non attira ombrelloni o escursionisti. A Munzi non interessa accattivarsi nessun favore e nessun odio. Lui ha solo raccontato una storia che odora di paura, terra umida, vendetta. La ’ndrangheta qui toglie il fiato, terrorizza più di cento thriller, più del Babau che ci raccontavano da piccoli, più di “Shining”, più del "Nightmare" di Wes Craven, più di un film slasher.

Il racconto fa paura perché parla il linguaggio del male che è semplice e primordiale, istintivo. Neppure la musica entra mai ad addolcire, ad accompagnare una curva, una riflessione, la panoramiche di un paesaggio; non colora quel silenzio rotto solo dai campanacci delle capre.

Il cielo del Sud, nel film, non è mai limpido, anche quando è sereno.  Non può esserlo perché chi ci cammina sotto, è scuro più di un’ombra senza carne, è coperto di carbone e lascia tracce nere al suo passaggio, calpestate da chi ci si accoda. Munzi dipinge un circolo di morte e vendetta, un tango della disperazione che si balla senza mai lasciarsi per mano, perché mentre una tiene la presa, l'altra colpisce.