Cosa saremmo diventati senza Ennio Morricone, senza quell’inizio in Mi maggiore che apre alle note ampie dei violini morbidi e lenti, tappeti in filato di seta, su cui abbiamo camminato in momenti vissuti distrattamente, riposti in un tempo bambino. Allora non avevamo idea di cosa fosse il futuro e il presente correva via velocissimo come una scala di piano improvvisata con una mano sola. Non si arrivava al davanzale, se non in punta di piedi, e nell’altra stanza qualcuno guardava un film e c’era un flauto di Pan che avvolgeva la domenica sera. 

Cosa ne sarebbe stato di noi se almeno una volta non ci fossimo adagiati di lato, ascoltando il tema di Debora, con lei che ballava nel retrobottega impolverato, spiata da due occhi lucidi, nascosti dietro una spaccatura del legno, pensando che la bellezza fa anche un po’ male. Avremmo avuto un istante di felicità in meno, privati di un certo carillon che riecheggiava in una vallata indurita dalla resa dei conti. Avremmo camminato più nudi, se non avessimo trattenuto le lacrime, mentre Brooklyn stava a guardare i proiettili che fischiavano sulle teste di un pugno di ragazzini in fuga.

Ennio Morricone. Ogni film che ha musicato ha un sapore e tutti hanno quella nota aspra, inaspettata, un contrasto sulla lingua che ti fa dire: cos’è questo? Mi piace e non lo sapevo. È stato maestro, parola che rimbomba forte, perfetta per descrivere un uomo che la musica la sapeva raccontare con leggerezza ma non con semplicità, perché non tutto può finire in una scatola apri-e-chiudi da cui si attinge senza neanche guardare.

Ennio Morricone, Ennio, già eterno, adesso è più vicino, famigliare. Lo ha avvicinato a noi il documentario di Giuseppe Tornatore che è una porta appena socchiusa. Da lì arriva un vociare soffice. Una luce soffusa di lampade antiche, tinge uno studio che odora di cose accumulate con ingegno. C’è un pianoforte a coda, crome e biscrome fuggono appuntate a matita sui pentagrammi sparsi. Morricone parla in camera, spiega. Piange a ricordare i tempi difficili, è allegro ma non troppo a ripercorrere le telefonate dei registi che volevano tutto di lui, anche quello che non gli piaceva più. Coraggioso, a tratti impertinente, mai impaurito neanche davanti alle decisioni più scomode come quella volta che, appena assunto in Rai, rassegnò le dimissioni perché i diktat lo avrebbero incantenato a una carriera da impiegato, priva di soddisfazioni.

Il documentario di Tornatore, è una lunga dichiarazione d’amore scritta a caratteri dorati, una di quelle lettere che cominciavano con eleganza discreta e proseguivano in un crescendo sentimentale. Morricone riparte dagli inizi, dai maestri (su tutti Goffredo Petrassi che per il compositore restò un legame affettivo imprescindibile), passando per la musica classica fino ai neonati guizzi che scioccavano un panorama omologato.  

Millenovecentosessantaquattro, la prima colonna sonora. In una vecchia foto di classe ci sono Ennio Morricone e Sergio Leone in calzoni corti. I due si conoscono dai tempi delle elementari ma le loro strade s’intrecceranno più avanti sui sentieri crepuscolari di “Per un pugno di dollari”. All’epoca comporre per un film era una una sorta di vergogna, un lavoro compiuto per necessità, per sbarcare il lunario. Morricone trascorse la sua vita a capovolgere i pregiudizi, convincendo anche il suo amato maestro Petrassi (e se stesso) che quelle composizioni erano arte pura, creazioni che lo hanno avvicinato ai divini Mozart e Chopin. 

Temi impossibili da dimenticare i suoi, come le delusioni per i premi sfiorati. Così fu per l’Oscar scivolato di mano nel 1987 quando Morricone, che portava in dono lo splendore di “The Mission”, fu scalzato da Herbie Hancock. Solo dopo l’Academy rimediò con una statuetta alla carriera che il compositore accolse con queste parole: «Credo che questo premio sia per me, non un punto di arrivo ma un punto di partenza per migliorarmi al servizio del cinema e al servizio anche della mia personale estetica sulla musica applicata. Dedico questo Oscar a mia moglie Maria che mi ama moltissimo [...] e io la amo alla stessa maniera e questo premio è anche per lei».

Guardare “Ennio” con gli occhi asciutti è impossibile. Mentre la sua voce racconta e sorprende, scorrono i fiumi carsici delle sue creazioni che finiscono per travolgere lo spirito di chi guarda e ascolta. E anche il dolore immenso che drappeggia alcuni film, con il suo tocco si illumina di una immensità inspiegabile, come il sentimento. Abbiamo avuto il privilegio di condividere parte del nostro tempo con un uomo straordinario che forse ripasserà da qui, un giorno o l’altro, ogni volta che di bellezza ne avremo bisogno.