Dopo la pioggia di piombo di Scarface il regista di Newark, autore di film straordinari, affida ad Al Pacino uno dei ruoli più importanti della sua carriera
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Carlito, non stare a pensarci su. Sali sul treno, fai veloce, prima che arrivi il destino. Il destino arriva, però, e per le mani di un inutile sgherro. Quello vuole riparare un'offesa, un torto, che nell’immenso giro di un’esistenza consumata ai bordi, è infinitesimo, nell’ordine dei micrometri. Ma così fa la sorte, ti prende alle spalle, nei vestiti di chi non t’aspetti. Credevi che ce l’avresti fatta, Carlito, mancava un tanto così. E invece no. Invece sei a terra, il mondo si capovolge, ti guarda scivolare via.
Carlito Brigante, è stato colpito a tradimento, spalanca gli occhi perché è finita. Stavolta sì. Guarda in alto, nella pietra della stazione, forse cerca Dio nelle pieghe della fine. I treni corrono, la gente bisbiglia, la Polizia carica un altro spacciatore portoricano che se l'è cercata. La città palpita. Il suo cuore quasi non lo fa più. Carlito è quasi andato. C’è un poster lì vicino, con un tramonto di fuoco. Ha i bordi lisi. Danza lì dentro una donna, sembra la sua Gail, libellula in quel paradiso di carta gualcito. Lui vorrebbe essere già arrivato in quel posto, per stare in pace. Ricominciare. Non si può sempre andare al massimo, no che non si può. È il desiderio dei dannati dal cuore buono, ricominciare in quell’altrove che ha il soffio dello Scirocco, il colore delle spiagge messicane, il mezzogiorno assolato delle cose bianche, pulite.
Trent'anni fa il debutto in sala
Carlito’s Way uscì nei cinema esattamente trent’anni fa. De Palma vestì nuovamente Al Pacino, dopo la pioggia di piombo di Scarface, e lo rimise in bilico, sull’orlo di quel mondo che Tony Montana pensava gli appartenesse, per rappresentare una storia di occasioni mancate e sempre per un soffio. Chiamò anche Sean Penn, che al solito volò verso vette irraggiungibili, per consegnarci un film si guarda senza respirare. De Palma si autocita, con la camera fa quello che vuole, da fuoriclasse: ribalta, allunga, torce. Lo spettatore si fida, docile, lo segue nei virtuosismi di una visione che diventa un occhio, anzi due, accesi su quel mondo.
Il monologo finale
Nel monologo finale che spezza la sua vita, Al Pacino è completamente Carlito. Gli occhi acquosi, la malinconia nella fronte, un fiore rosso che s’allarga sul petto. È finita, ultimo giro. Senza rancore. Brian De Palma, ci accompagna nell’ultimo valzer di una vita perduta, che non ammette una seconda possibilità, un'uscita laterale, una concessione. In Italia il film vinse il Nastro d’Argento, meritatissimo, per il Miglior doppiaggio maschile, andato a Giancarlo Giannini, voce italiana di Al Pacino.
Qualcuno mi sta tirando verso il basso: lo sento, anche se non lo vedo. Mi dispiace, ragazzi. Non basterebbero nemmeno tutti i punti del mondo per ricucirmi. È finita, è finita... Mi metteranno nel negozio di pompe funebri di Fernandez, sulla 109esima Strada: ho sempre saputo che prima o poi sarei finito lì... Però molto più tardi di quanto pensava un sacco di gente!
Mentre Brigante viene caricato sulla barella, ripensa alla sua vita, a suo figlio che non vedrà mai. Questo è il fato che tocca a chi spinge, corre, vuole arrivare in vetta. In un lento piano fisso, la voce di Pacino culla e strappa un lungo brivido su un finale che toglie il fiato. «Il bar sta chiudendo, il sole se ne va... Dove andiamo per colazione? Non troppo lontano... Che nottata! Sono stanco amore, stanco...»