Forse non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco, del destino, ma quando nel 1990, l’Italia, unita sotto "Ciao", quell’astruso pupazzo con la testa di pallone e il corpo da Lego, conobbe Roberto Baggio, fu proprio come in quei film di vittorie epiche quando arriva l’eroe che oltrepassa la montagna e parte l’orchestra con tutti gli archi.

Quell’anno furono in due, Baggio e Schillaci, a portarci a un passo dalla vittoria perfetta. Nel 1994 toccò a lui, al numero 10, Roberto Baggio, per gli amici Roby, per tutti Divin Codino. Netflix omaggia il campione più amato con un film diretto da Letizia Lamartire che ha il pregio di riaccarezzare, con l’emozione a fior di labbra, certi momenti amari e tenerissimi.

Il “Divin Codino”, da ieri disponibile sulla piattaforma, racconta la storia di Baggio seguendo un filone di biopic che la televisione italiana sta rapinando a piene mani. Prima è stato il turno di Totti (documentario e poi serie), adesso tocca a Baggio che ha il volto di Andrea Arcangeli che è riuscito dove Pietro Castellitto ha fallito: non ha imitato il campione, non lo ha sciommiottato, l’ha vestito. Il film, tuttavia, un po’ frettoloso, non incide ma sfiora, punta molto sui momenti di crisi della vita di Baggio, l’uomo del fortissimamente volli, e se anche non rimarrà una pietra miliare del genere, ci fa tornare indietro nel tempo, fino a quel momento, quel preciso momento, in cui tutto sembrava possibile.

C’era una volta un bambino…

Ci sono le storie e poi ci sono le storie di sport. Iniziano come favole della buonanotte: c’era una volta un bambino. Un bambino che aveva un sogno e occhi enormi per contenerlo tutto. E aveva mani sporche di cortile, la gomma americana sotto le suole, nessun pensiero pesante per la testa. C’era un cortile, un muro pieno di botte nere, voci che si spandevano tra gli angoli dei palazzi, il controsuono acuto sull’ultimo rimbalzo della palla arancione comprata alla fiera.

Iniziano così queste favole. Con i capelli appiccicati sulla fronte e una vecchia crosta sul ginocchio. Poi arriva la vita e, come il campo da gioco, da vicino sembra enorme, più di quello che ci si immaginava. Da perdersi.

Si può essere tifosi da generazioni, portatori, sani o insani, di un tifo che chiude la gola, oppure si può essere appassionati di racconti e quando è così, nella spirale emotiva di certe storie ci finisci dentro, bandiera o non bandiera.

E allora passo indietro, dolorissimo. Pronti?

Quel pomeriggio di un giorno da cani

Millenovecentonovantaquattro, diciassette luglio. In Italia è notte fonda, in California è un primo pomeriggio di un giorno da cani. Finestre spalancate per arieggiare le stanze avvinghiate dalla calura. È un istante che trema nei pixel della tv analogica. Il verde del campo di Pasadena è un muschio di sottobosco nella vista laterale dei ricordi. Non si può perdere in una notte così. Ci siamo arrivati sull’onda del destino che non mente, non può mentire. E questo l’hanno capito tutti, questa favola è nostra. Ci siamo arrivati con la sconfitta e poi la rimonta epica. Allora? Davvero può andare tutto storto? No, non può.

Com’era la storia, Roberto? Cadi e ti rialzi. Ti maciullano un ginocchio e tu ritorni più forte di prima. Com’era la storia, Roberto? Basta volerlo. E noi crediamo a lui, crediamo al codino che ci dà le spalle per volare verso la porta.

Dieci passi

L’azzurro delle maglie è blu elettrico, un lenzuolo rosso corallo sulle teste del pubblico sembra uno strappo in un manifesto dimenticato al muro. Si deve battere l’ultimo rigore. Roberto Baggio sistema la palla e arretra di dieci passi. «No, la palla non si deve sistemare mai!» sussurra qualcuno dalle retrovie di casa. «Zitto, zitto, che porti male». Luci accese nei palazzi d’Italia nella mezza estate che odora di cornicioni di pizza abbandonati come lingue esauste nei cartoni.

Dietro la rete del Brasile, una indifferente striscia pubblicitaria della Phillips sta a guardare. È un momento di ferro e pietra. C’è tutta la nostra vita davanti e lo specchio della porta gigante che ora pare una fessura.

Questione di secondi. Sui terrazzi e nelle piazze le birre sono finite da un pezzo, i posaceneri pieni, strabordano di cicche, le unghie sanguinano. Siamo sotto, siamo messi male. Il Paese dei santi, poeti e navigatori chiede il miracolo nel nome dell’unica fede a cui ci si affida senza far domande. Il miracolo è Roberto, Roberto Baggio, che ci ha abituato alle conseguenze dell’amore, al peso degli ultimi secondi. Non sono briciole da buttare al vento, sono istanti che rivoluzionano tutto. Non è solo poesia, è la prosa dello sport con cui si costruiscono i nodi stretti delle sfide.

Il fischio dell’arbitro. La corsa verso il pallone. Taffarel appena chino a guardare il siluro che sta per colpirlo. Il Brasile trema, l’Italia mano sul cuore, una alla gola. Il rumore del tocco. L’abbiamo sentito davvero? No, ma è nella nostra testa chiarissimo anche in questo preciso secondo. Le mani dal cuore alla fronte, gli occhi che sanno sempre tutto prima del resto, già umidi.

Roberto calcia. Il pallone vola, un dito invisibile lo spinge verso il cielo. «Alto», lo dice Pizzul, senza sbriciolare emozione. Baggio non ha mai tirato un rigore alto nella sua vita. «Il campionato del mondo è finito, lo vince il Brasile».

Così è la vita

Così è andata. Ricordarlo è come essere nuovamente in quei panni sudatissimi, nelle magliette finite ora chissà dove, in case che non ci appartengono più. Chi abbiamo abbracciato per avere conforto? Che diceva la nonna affacciata alla porta che non capiva chi aveva vinto? Chi chiamava quando il filo del telefono vibrava a ogni squillo? I papà piangevano, le mamme consolavano, i bambini tiravano per la maglietta lo zio e macinavano ricordi che avrebbero raccontato in futuro.

Eppure in quella grande sconfitta, la storia diventa brillante. E questo per merito suo. Merito di Roberto Baggio, il più grande di tutti, più grande anche in una disfatta che non ha provocato rabbia, solo dispiacere. A ricordare quella notte c’è così tanto affetto in corpo che viene quasi da piangere per la nostalgia.

L’emozione di quel tempo è come se, ogni volta, rientrasse dalla finestra rimasta socchiusa e duole sempre allo stesso punto. Lì, a quel rigore, a quell’occasione mancata, perduta, che ci appartiene, che fa dolcemente male come una caduta dalla Bmx di cui resta una cicatrice che parla di noi meglio di qualunque altra cosa e per un semplice motivo: racconta una storia. La nostra.