Dopo due film (mediocri) l’ultimo capitolo della saga cool newyorchese mette una pietra tombale sulla comitiva di amiche più famose degli anni Novanta. Un peccato imperdonabile
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Gli anni sono quella cosa che passa tra il maglione nel forno, la cucina immacolata, il Martini al posto della cena e la discussione col pescivendolo sulla qualità del salmone. E a ricordarcelo, come un’emicrania che parte dalla cervicale e arriva alla ricrescita delle meches, è l’ultimo capitolo (preghiamo sia così) di Sex and the city, che per pura pietà è stato ribattezzato “And just like that”, e così in un attimo le discussioni sulla baguette Fendi hanno fatto posto a divano, tv, luci spente e sonno duro.
D’altronde così è la vita, a volte meno meravigliosa di quanto avevamo programmato, ma stavolta a metterci un post-it sul frigo per ricordarcelo è una commedia svestita di lustrini, diventata una scura prefica in prima fila al funerale dell'indispensabile superfluo, cremato in un'urna di ceneri vagamente glitterate. Che il dramma si trasformi in farsa è anche accettabile, il contrario è un sacrilegio.
Una festa luttuosa
Quello che doveva essere un ritorno trionfale si è trasformato in qualcosa di peggio di una rimpatriata in pizzeria con i compagni delle medie. Lo scintillio di New York s’è spento nei discorsi qualunque sul Covid, si parla di sesso giusto per non perdere la faccia con la stessa dimestichezza di un nonno che chiede al nipote come si memorizzano i numeri sul cellulare, e l’unica domanda, mormorata con amarezza, che perseguita dall’inizio alla fine della visione è: perché ci avete fatto questo?
Sì, gli anni passano, inutile fingere che terremo quegli zigomi su a vita, la vita snella senza mangiare bianchi d’uovo a pranzo e cena. La pancia cresce, la dieta non funziona più in quindici giorni ma in quindici anni, la testa si impigrisce, cede alle lusinghe del bingewatching con sempre meno sensi di colpa. E non serve spendere il quinto dello stipendio in punture salvarughe quando un calabrone regala lo stesso effetto “canotto” e pure gratis. Ma perché sbattercelo in faccia come una bolletta non pagata?
Per deprimersi abbastanza, e fin da subito, basta guardare che fine ha fatto in “Just like that” Charlotte York, la brillante esperta d’arte, gallerista, la donna col naso più bello del mondo, i capelli di seta, gli occhi dolci, ridotta ora a una sottospecie di paperino scemo. La sua ambizione è naufragata sulle sponde del Mulino Bianco, ora è solo una ricca mamma nullafacente, lacrimosa, pesante come una lastra di granito e una peperonata a cena, ma ancora amante dei fiocchi e dei gridolini e incapace di stirare un sorriso senza strapparsi la faccia botulinizzata.
Un'ecatombe su tacco 12
E Charlotte non è il solo caduto sul campo. Il sequel di Satc, è un’ecatombe su tacco dodici, ma non ci si sta più comode come una volta a volteggiare con gli stiletti sull’asfalto. Miranda Hobbes, ad esempio, la vediamo passeggiare nei campi lunghi con la leggiadria di un panzer. Il colore argento dei suoi capelli, è proprio l’ultimo dei suoi problemi. L’avevamo lasciata brillante avvocato, una che sapeva il fatto suo, pronta a farsi strada in un mondo di colleghi maschi agguerriti, la ritroviamo incapace di tenere una conversazione di due minuti e col vizietto del bicchierino di troppo. Per non parlare di suo marito, per giunta diventato mezzo sordo, e di suo figlio che più tonto di così non potevano pensarlo. Chi ha scritto questo soggetto voleva farci male. Non c’è altra spiegazione. Un Saw l’enigmista travestito da Versace.
Adesso arriviamo alla grande assente, Samantha. L’attrice, Kim Catrall, di partecipare a questa riunione di cateteri, non ci ha minimamente pensato. Neanche le sirene di assegni cospicui l’hanno persuasa. Lei e Sarah Jessica si odiano a morte, e piuttosto che dividere il set con lei, la Catrall ha detto: no, grazie, e non chiamate più su questo numero.
Ma il suo fantasma aleggia, eccome, e in contumacia (una cattiveria tutta femminile) Carrie la trasforma da amica del cuore in cinica approfittatrice, egoista e attaccata ai soldi. Una condanna in Cassazione senza diritto di replica. Ma eccoci a lei, la protagonista, Carrie Bradshaw che, tutto sommato, ha affrontato gli anni con dignità naturale. Mostra meno della sua età grazie al trucco e a un parrucco favoloso ma ci mostra la sua versione sbiadita e annacquata. Ha dimesso il gonnellino di tulle per una vita ordinaria e tranquilla, da sciura profumata e organizzata, con le Manolo tenute come reliquie in un santuario che odora di armadi vecchi. Adesso Carrie torna a casa, toglie i tacchi, beve due sorsi e poi via a dormire.
Non si può essere sempre uguali ma...
«Non si può essere sempre uguali» è il ritornello che risuona ogni due-e-tre, una delle tante scuse non richieste che punteggiano la serie; le superstiti si giustificano davanti al pubblico delle rughe, dei capelli bianchi, delle abitudini, ottenendo l’effetto rigetto. Tralasciando il colpo (non un colpo di scena, proprio un colpo al cuore di tutte) che trascina la commedia nella tragedia (e che ha pure fatto crollare in Borsa le azioni di una nota marca di cyclette), tutto è luttuoso, ingrigito, appannato, deprimente. Come se non bastasse la vita vera a ricordarci che non si può ballare per sempre, c’è toccato pure bere un Cosmopolitan corretto con Valeriana. E questa non è una punizione, è un colpo di pistola a sangue freddo.