L’opera della regista francese, candidata come miglior Film e Miglior regia, è un giallo in cui non è l’assassino il polo attrattore della storia, ma le storie dei protagonisti velate di ambiguità
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Una baita, la neve che scolora la montagna, la denuda e poi la ricopre di ghiaccio. Interno giorno. Due donne parlano. Una chiede, l’altra sorride. C’è un bicchiere di vino, il vetro è diteggiato, segno che viene rabboccato spesso. La donna bionda guida la conversazione, cerca di portarla dove desidera, l’altra oppone resistenza. La loro è una conversazione impossibile, perché dal piano superiore qualcuno aumenta il volume dello stereo fino a renderlo insopportabile. La padrona di casa continua a sorseggiare il suo rosso, maschera l’imbarazzo con un risolino. L’altra si congeda. Il loro rendez-vous è finito. Un bambino porta il cane fuori inconsapevole di quello che sta per accadere. La donna sale al piano di sopra, accende una sigaretta, saluta l’ospite da una finestra. Poco dopo, proprio lì, davanti all'ingresso dello chalet, la pace apparente sarà rotta dalla morte; ci sarà un cadavere, un matrimonio finito, un trauma disegnato dagli schizzi di sangue sul biancore accecante. La fine si presenterà all'inizio, e poi riavvolgerà il nastro.
Un uomo morto è il protagonista di pietra di “Anatomia di una caduta” il film rivelazione dell’anno, già vincitore della Palma d'oro al festival di Cannes e candidato nella sezione miglior film e miglior regia ai prossimi Oscar.
Autopsia di un matrimonio
La mise-en-scène della regista Justin Triet è da manuale. È un legal drama, è indubbio, hitchcockiano per certe sfumature, perché l’ipotesi di una caduta accidentale non convince la Procura francese che mette la donna alla sbarra. Ma lo spettatore non sarà coinvolto solo dalla risoluzione del giallo, ma ipnotizzato dalla storia di una coppia frantumata, un tempo unita e poi sbilanciata, pesata sull’infelicità, sui non detti, sui sensi di colpa per un incidente del passato che ha reciso l'arteria anche della passione. Un'anatomia, quella di Triet che è anche un'autopsia familiare che mette sul freddo piano metallico del giudizio altrui anche le conversazioni più intime della coppia, restituite all'orecchio dell'uditorio da nastri registrati.
La regista gioca con lo sguardo mobile della camera e l’obiettivo si trasforma nell'occhio incerto dello spettatore che segue a guizzi le vicende di questa donna, algida e dominatrice, cercando tracce della sua colpevolezza in una continua caccia a bias di conferma. Gioco facile, odiarla, ma è un inganno, fomentato anche dall'ambiguità della lingua che lei usa e la divide dagli altri, generando un'incomunicabilità che annoda il dubbio nel caos.
Chi è stato?
Chi c’era in quello chalet? L’uomo è forse scivolato o si è gettato di sotto perché arrivato al limite della sua nevrosi, della sua sottostima, della sua ansia? Oppure la controllata e fredda scrittrice, la teutonica madre assente, che controlla le menti deboli di marito e figlio, disturbata da una presenza ormai insopportabile, ombra di un amore evaporato nella colpa e nella tristezza, è la colpevole di un ultimo atto che ha reciso il ramo secco della sua esistenza?
Quando si è vicini a prendere posizione, ecco che si vacilla nuovamente. Essere poco amabile, non è una dimostrazione di colpa. Triet riesce, con grande maestria, a disvelare le pieghe di un tessuto delicato, non cedendo mai alla tentazione di prender parte, di sbilanciarsi, di indulgere troppo.
Il film, che vede nel cast una straordinaria Sandra Hüller (candidata come miglior attrice protagonista) e il giovanissimo Milo Machado-Graner nei panni del figlio ipovedente, in Italia ha avuto un pessima distribuzione e forse, dopo la cerimonia dell’Oscar (ma contro Nolan poco potrà fare) tornerà in sala (forse). Intanto, però, per gli impazienti il film è disponibile a noleggio su diversi canali streaming. Da vedere sorseggiando vino e con le finestre ben chiuse.