Su Netflix la miniserie evento che ha scioccato mezzo mondo. Girata con la tecnica del one shot, senza tagli e montaggio, la storia racconta di un tredicenne che si è macchiato di un delitto terribile. Assolutamente da non perdere
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Adolescence si brucia in quattro puntate corte, lunghissime. Fa male agli occhi, peccato duri così poco. La miniserie Netflix, in un fiato di piano sequenza, ci costringe a vedere, in “cura Ludovico”, il germe della violenza piantato dove violenza non dovrebbe esserci: negli occhi di un ragazzino che ha ancora addosso il pigiama che odora di gomma e sudore da gioco, sporcato di pennarelli e merendine.
È un male anomalo quello che gli balena negli occhi: puzza di sociopatia, macelleria mediatica, trito di corpi, personalità incompiute, pornoviolenza. È il male del giorno che ha compiuto il salto di specie, nell’indifferenza generale, dal mondo adulto a quello infantile.
La serie è un’opera in quattro atti che il regista Philip Barantini mette in scena su sceneggiatura di Jack Thorne e Stephen Graham, quest’ultimo anche attore nella miniserie nei panni di Eddie Miller, il padre del tredicenne accusato di un delitto feroce. La scelta del piano sequenza non è un vezzo, ma frutto di una precisa scelta narrativa: sospende, così, ogni giudizio da parte del narratore e consegna la responsabilità interpretativa allo spettatore, che scopre, come fosse in quegli ambienti o dietro un vetro, cosa sta succedendo con crescente orrore e frustrazione.
Adolescence è lo spaccato di un mondo incrinato, su cui soffia il vento dei nuovi media, in cui ognuno è broadcaster delle proprie manie, ossessioni, solitudini, del proprio ombelico, di un ventre grasso, un occhio truccato, un divertimento ostentato, un primo piano filtrato, animato, finto. La necessità di affermazione di un sottosviluppo, in alcuni casi, sfocia in un male infestante, che si moltiplica indisturbato per social-mitosi, sotto gli occhi di una generazione con ancora addosso i sintomi del sogno infranto degli anni 90. Si nasconde nelle scuole, nei cortili delle chiese, sotto casa, dentro casa. Dentro le nostre case.
Una prova registica non da poco, quella di Barantini, che usa una tecnica (dell’one shot) che ha precedenti illustri e nasce col cinema stesso, quando agli albori il montaggio era di là da venire. Nell’elenco spicca lo splendore di Arca Russa di Aleksandr Sokurov, impresa titanica in 99 minuti di piano sequenza, complicato dall’ingente quantità di comparse (4.500 persone, tra cui 867 attori, 3 orchestre) e dai movimenti tra esterni e interni, il particolare Victoria di Sebastian Schipper, un viaggio dal tramonto all’alba tra le strade spagnole. Ci provò Hitchcock in Rope, ma a causa della tecnologia non consona al suo progetto, fu costretto a stacchi fantasma, e poi ci sono i “bari” come Sam Mendes in 1917 e Iñárritu in Birdman, che hanno ritoccano con tagli nascosti.
La scelta del piano sequenza rende ancora più potente il messaggio della storia, caricata di dettagli scenografici, simboli nascosti ed evocativi che raccontano, sottotraccia, la tragicità degli eventi attraverso la percezione. Dallo strappo sulla carta da parati a forma di coltello, al biliardino rovesciato nella stanza del colloquio tra il ragazzino e la psicologa.
Adolescence espone il pubblico a una realtà evidente come un elefante che galleggia sulle nostre teste, e per questo invisibile: schegge di un disagio malato spuntano in ogni momento nei mondi alieni dei ragazzini, che parlano lingue sconosciute, crittografate, mescolate, annodate in faccine che ridono, in fagioli rossi, pillole esplosive, mani giunte; messaggi in codice fatti per distruggere senza far rumore.
La distanza tra i “boomer”, e gli adolescenti e pre-adolescenti, è abissale. Basta una battuta della serie per capirlo con sintesi fulminante: è la scena in cui la psicologa chiede al ragazzino perché ha postato una certa foto su Facebook. Il tredicenne la guarda stranito. «Facebook?» si meraviglia e questo perché i mondi dei teen adesso viaggiano su ben altre frequenze: Instagram, TikTok, Snapchat, dove non è importante scrivere, ma mostrarsi.
La serie sbatte in faccia agli spettatori l’odio, germinato nelle generazioni che ora iniziano il salto dalla scuola elementare alla media, che ha assunto la forma di piccoli visi scontenti, imbronciati. È una mala educación che s’infila comoda nei tasconi dei cargo, dove i telefoni, pieni zeppi di app che stravolgono facce, voci, movimenti, oberati di selfie, labbra procaci, dirette dai bagni della scuola, gambe scoperte, vibrano e si scheggiano.
Già nel bellissimo Elephant, Gus Van Sant, con un gioco di prospettive, aveva raccontato la strage di ragazzini nella scuola di Columbine ferendoci al cuore. Adesso Barantini si mette in scia, non essendo meno crudele.
Guardiamo Adolescence con una sola domanda in bocca: perché l’ha fatto? Perché un ragazzino di tredici anni ha ucciso a coltellate una coetanea? Ce lo chiediamo con la stessa passione con cui scaviamo negli occhi di una persona malata, cercando qualcosa che possa escluderci da quel pericolo che consuma l’altro. Ci sarà qualcosa che possiamo fare, o non fare, per metterci al sicuro? Il movente è consolatorio, rassicurante. Se c’è un motivo, qualunque motivo che muove all’azione e alle sue conseguenze, la ragione può salvarci. Un motivo può proteggerci dall’angoscia della casualità: cieca, irragionevole, insensata, in grado di frantumare la felicità futura di qualunque famiglia.
Come la famiglia Miller.
Il piccolo Jamie Miller è un assassino. È violento, cangiante, multiforme; è un manipolatore, un disperato, insensibile. È un bambino con i tratti di un uomo consumato dal rancore, dalla misoginia e dal pregiudizio, accecato dalla bassa autostima, in cerca di consolazione, approvazione. Jamie è cresciuto in una famiglia normale, amorevole. Non ci sono scuse, alibi per lui. Può accadere a tutti di non vedere, non capire per poi chiedersi dove abbiamo sbagliato. È così.