«Tu con le orecchie grandi! Vieni qui, sostituiscilo». Il comando arrivò sul set di “Quella sporca dozzina dal regista Robert Aldrich. Quello con le orecchie grandi era Donald Sutherland. Sul set quella volta c’era Clint Walker che faceva le bizze, così il regista stufo delle rimostranze dell’attore, puntò il dito verso Sutherland e lo invitò a fare un passo avanti. «La parte è tua».

Volto affilato, guascone, vampiresco, alto e sottile, occhi di ghiaccio. Di lui ci si può fidare se su una panchina spiega, pezzo per pezzo, il complotto ai danni di John Fitzgerald Kennedy. Di lui devi avere paura se allarga il sorriso e diventa il fascista perverso in Nocevento.

Classe 1935, nato in Canada, Sutherland di salute malferma sin da piccolo, a 22 anni, nonostante la poliomielite l’avesse lasciato quasi zoppo, se ne andò a Londra per studiare da attore. La sua filmografia è corposa, quasi duecento film, e si allunga fino al 2022 con una produzione Netflix tratta da un racconto di Stephen King, “Mr’ Harrigan’s phone”. La scena madre lo vede steso in una bara. Una sorta di profezia beffarda.

Sardonico come un diavolo, quando la parte aveva sfumature sulfuree; rassicurante e fascinoso, quando il profilo da vestire era smerigliato al punto da riflettere tante facce, Sutherland non era un attore convenzionale e non amava i registi convenzionali. Fellini disse di averlo scelto per Casanova perché aveva «gli occhi di uno che si masturba molto».

È nato attore, ne aveva il profilo, il fisico, il sarcasmo. A 88 anni ha lasciato questa vita, dopo una lunga malattia, ma resterà uno di quei personaggi regalati all’immortalità da pellicole che non invecchieranno mai.

Dopo “Quella sporca dozzina” il suo agente gli disse che se voleva sfondare, almeno provarci, doveva prendere un maledetto aereo e andare in California. Arrivò all'aeroporto, con in braccio il figlio Kiefer che gli vomitava sulla spalla e un biglietto pagato dall'amico e collega Christopher Plummer. «Quanto resterà in America?» gli chiese la guardia. «Pochi mesi» rispose. Non fu così. 

 

La parte del capitano Benjamin Franklin “Occhio di Falco” Pierce, nel film M.A.S.H. di Robert Altman, fu una catapulta. Da lì non si fermò più, tutti volevano quell'attore altissimo e con lo sguardo papè-satàn, capace di insaporire la parte più complessa con un'amabile ironia. Adorava l’Italia, adorava Fellini Bertolucci. Accettò la proposta di Giuseppe Tornatore per “La migliore offerta” e quella di Paolo Virzì in “Ella&John”.

A pellicole più leggere, blockbuster, affiancò ruoli fuori dalle righe come quello di Gesù Cristo nell’oscuro “E Johnny prese il fucile”, agghiacciante pellicola del 1971 in cui interpreta una visione a cui si aggrappa un soldato orrendamente mutilato. Il debutto sul grande schermo fu ne “Il castello dei morti vivi” del 1974, con Christopher Lee e Philippe Leroy per la regia dell’italiano Lorenzo Sabbatini, in arte Warren Kiefer. Sutherland scelse di chiamare suo figlio proprio Kiefer, per ricordare il giorno che cambiò la sua vita e gli regalò quelle che si trovò a vivere.

«Personalmente penso che sia stato uno degli attori più importanti della storia del cinema – ha scritto proprio il figlio del grande artista per ricordare il padre -. Non è mai stato intimidito da un ruolo, buono, cattivo o brutto che fosse. Amava quello che faceva e faceva quello che amava, e non si può chiedere di meglio. Una vita ben vissuta».