La fila dei mezzi militari, la paura della morte, il coprifuoco, il racconto negli occhi di chi ha scelto di combattere lasciando moglie e figli: viaggio nella guerra che sta dilaniando l'Ucraina
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Le settimane sembrano interminabili, anche perché ho bisogno di tuffarmi nel loro sentire per comprendere al meglio e per reperire informazioni. Qui tra il Centro Tesca, un ex centro commerciale adibito a luogo di prima accoglienza (il più grande di tutta la zona), dove i profughi vengono rifocillati per una notte e poi organizzati per le varie destinazioni europee e la Stazione di Przemysl, ho dato. Ora è il momento di partire. Un’attesa lunga quella per prendere il treno che porta a Leopoli. Dopo tante ore, tanta stanchezza, tanta carne secca e tanta sete arriviamo nella terra della sofferenza.
La stazione di Lviv (Leopoli) è grande, tanti volontari e migliaia di persone in fuga. Ad attenderci una collega che ci ha fatto da fixer e un ragazzo, anche lui volontario, che ci ha ospitato per tutta la durata della nostra permanenza.
Mi sono ambientata e grazie a Nadiya, la collega e fixer (un giornalista, un driver o un analista che durante i periodi di guerra ti fa da “cicerone”) che si è mostrata all’altezza della situazione, ho capito come bisognava muoversi. Dopo aver preso le misure e dopo aver imparato ad “accettare” quel suono acuto delle sirene, ero pronta a districarmi per l’Ucraina.
Con due colleghi italiani, ci affidiamo ad un altro driver che fortuna vuole che sia anche un analista. Lui ci condurrà a parecchie ore da Leopoli, nella regione di Rivne, quella al confine con la Bielorussia. La Regione da dove, il 26 aprile, le forze armate russe hanno continuato a lanciare missili per colpire le linee ferroviarie, elementi necessari per rifornimenti, armi, mezzi e viveri.
Bisogna partire presto, abbiamo il coprifuoco alle 22 e le ore da macinare sono tante. L’incontro è stato programmato sotto il nostro alloggio alle ore 8:30. Carichiamo gli elmetti, i giubbetti antiproiettile, ultimo check e via verso Rivne.
La strada è letteralmente costellata di check point, incontriamo una colonna di mezzi militari in movimento, accenno una ripresa, ma appena vicina devo smettere. “Non si possono fare video” (ma sono qui per questo che diamine).
Incontriamo mezzi che, agli occhi anche dei più ingenui, possono contenere solo missili di grande gittata e la forma per gli “addetti ai lavori” ce lo dimostra. Vorrei fotografare, ma ho le mani legate (e due). La sicurezza prima di tutto (dicono, ma se non ti sporchi un po’ le mani di fango, come fai a tuffarti dentro ad una realtà).
Appena arrivati, ci dirigiamo al palazzo governativo. Militari ovunque, all’ingresso, alla porta, nel corridoio e fino all’ascensore e così a continuare davanti l’atrio. Uomini dignitosi, fieri e consapevoli. Otteniamo un incontro più che illuminante con il Governatore di Rivne Koval Vitaliy, questo si convince della nostra onestà intellettuale e ci permette di visitare una trincea scavata in difesa della Città.
Nell’attesa che i militari si coordinino con il fronte, i loro colleghi accennano un po’ di rilassatezza e ci offrono orgogliosi, un dolce tipico delle loro parti, probabilmente cucinato da qualche moglie o fidanzata. Lo accettiamo con grande piacere (molto buono e anche molto calorico).
Ritorniamo giù e dopo qualche chiacchiera, che mi fa capire bene dove mi trovo e cosa sta accadendo, siamo pronti a partire. Due macchine ci scortano, una avanti e una dietro. Arriviamo a destinazione, ma la nostra macchina non è adatta a tutto quel fango e rischiamo di rimanere impantanati. Così scendiamo dall’auto e proseguiamo a piedi. Penso: “Fortuna che ho i Crispi in goretex, altrimenti ci lasciavo le scarpe”.
Alcuni militari non sanno del nostro arrivo, quindi scateniamo l’elemento sorpresa. Ci accolgono calorosamente e a turno ci fanno entrare in trincea. Testa bassa, in silenzio e mai fotografare al di fuori della fossa, nulla deve essere riconducibile a quel luogo.
I militari qui presenti fanno parte del primo anello della difesa ucraino. Ci sono tre anelli, questo che è quello locale ed è formato dai volontari civili arruolatisi, quello regionale è formato dagli stessi volontari civili e militari e quello nazionale formato da militari professionisti e volontari della Legione Straniera provenienti da altre nazioni. Tutti organizzati in base alle proprie peculiarità e capacità di utilizzo armi.
Mentre sono nella trincea uno di loro, uno dei più anziani, si stacca una delle sue patch e me la offre in segno di rispetto. Mi dice: “Raccontateci al mondo per come dobbiamo essere raccontati”. Tra me e me penso che tutti coloro che ho incontrato, mi stanno chiedendo la stessa cosa, ma non si conoscono e ognuno ha il suo background, ma il Dna è uno. Stupita e con le mani tremanti la accolgo con emozione, perché conosco il valore simbolico che queste hanno per i militari, soprattutto se sono quelle di “appartenenza” al reparto. Da quel momento il simbolo di Rivne mi ha accompagnata per tutta la mia permanenza. Ci parlano di spie, di come sia difficile fidarsi di qualcuno, soprattutto quando fino a poche settimane prima ci convivevi e condividevi due lingue. È questa la facilità di passare da una parte all’altra, la conoscenza di idiomi quasi simili.
Mentre snocciola il rosario ortodosso l’uomo dalla barba grigia (colui che mi ha donato la patch) mi dice che tutti coloro che sono lì sono volontari e che hanno lasciato momentaneamente il loro lavoro. Per ognuno di loro ci sono volute due settimane circa di preparazione all’interno dei centri di addestramento per civili e in base al feedback finale sono stati smistati sul campo. Chi non può arruolarsi, fa di tutto per partecipare, così cuciono manualmente le tende e le reti camo che i soldati utilizzeranno al fronte o per coprire i mezzi di trasporto. “Barba Grigia” mi dice: “Anche le nostre famiglie hanno un compito importante, quello di supportarci. Le nostre mogli di portare avanti i figli e i figli sono costretti a crescere in fretta, perché devo responsabilizzarsi per sostenere madri, sorelle e/o fratelli. Ognuno qui ha il suo compito e noi lotteremo fino allo stremo per difendere la nostra Patria, la nostra identità, la nostra lingua”.
Sta per arrivare la pioggia, ma io faccio un ultimo giro tra i soldati e strappo qualche altra domanda. È ora di rientrare, il coprifuoco ci rende nervosi, ma vorrei restare. Non c’è nulla di bello in una guerra. L’odore della tensione, delle preoccupazioni, della paura, della forza, della temerarietà, della morte ti rendono così adrenalinico da non farti dormire. C’è chi non dorme da giorni o se dormono lo fanno a turni di poche ore l’uno. Non si può immaginare con che forza hanno abbracciato una vita che non gli apparteneva e con che dignità cercano di mantenere fede ad un giuramento mai fatto, ma stampato nel proprio Dna.