Mi trovo in Ucraina da qualche giorno, ma il mio viaggio è iniziato circa due settimane fa. Il mio spostamento verso Leopoli è stato costellato di tanti incastri e fortuiti incontri. Quasi 2 settimane a Przemysl la città polacca confinante con l’Ucraina che ha visto un flusso continuo di persone in fuga dalla guerra.

In Polonia ho iniziato a percepire il dolore di chi fugge. Tante foto, volti, sguardi, lacrime amare, abbracci cercati e inaspettati, sorrisi di speranza e tanta, tanta tristezza e sofferenza. Solo l’idea di immaginare che significhi non avere più una casa mi rende matta. Quei volti spezzati dal dolore e dalle fatiche di una vita che ora non esistono più. “Come starei io al posto loro? Non riesco neppure a concepire l’idea di tutto ciò. Già come spettatrice “passiva” mi sento persa”.

Più di 120mila persone al giorno in fuga dalla guerra, con un cambio quotidiano di mille volontari solo alla stazione ferroviaria. Mi sono trovata catapultata mio malgrado in un marasma fatto di emozioni, buste dell’immondizia usate come valige, impossibili da colmare con “beni di una vita”. Gente spaesata e inconsapevole del proprio futuro… ed è lì, che mi sono sentita una ladra assieme ad altri ladri di scatti e di emozioni.

Ormai siamo così abituati a vedere profughi e dolore, che ci sembra quasi normale assistere a uno spostamento di massa con gente che fugge da ogni tipo di guerra. Ma questa fuga mi ha stupita, perché di solito vedo migliaia di uomini e donne che fuggono, non per ultimo la recente tragedia in Afghanistan. Da questi luoghi a fuggire generalmente sono più uomini, misti a donne a minori non accompagnati, invece qui ho visto e sto vedendo solo donne, un numero inquantificabile di donne, con bambini e anziani. Il perché risiede nel fatto che questi mariti, fratelli, figli e compagni hanno scelto di restare per combattere e difendere la propria terra.

Oltre a lasciare dietro macerie, case non più case e affetti, lasciano in dietro i propri uomini, che non sanno se rivedranno più. Un elemento maggiore per sentirsi spaesati e persi.

Sgomitate a destra e a sinistra, eravamo davvero in tanti, il Covid non esisteva più, niente mascherine, niente paura dei contagi, l’unico virus rimasto era quello della “guerra”, ancora più violento e letale.

Noi giornalisti lì in mezzo, forse, eravamo quelli che avevamo meno diritto di stare in quella stazione. Un pugno alla bocca dello stomaco è questo quello che ho sentito ed è così che ho capito che dovevo attendere, non forzare. Prima che profughi, erano persone e prima che persone erano anime. Ferite così in profondità da sanguinare senza evidenza. Le anime lì presenti avevano bisogno del loro tempo, prima di familiarizzare con “persone” come me.

Come avvicinarmi davanti a quel dolore, a quei volti segnati e stanchi, a quelle lacrime. Come si sentono, che timori hanno e cosa porteranno dentro per tutta la vita?”

Capisco che sia normale il loro guardarmi con diffidenza. Quella macchina fotografica al collo darebbe fastidio anche a me. Alcuni nel vederla prendevano i figli e li portano verso di loro, quasi a difenderli da occhi indiscreti. Così mi sono messa in un angolo ad osservare, per provare a capire sulla mia pelle attraverso i loro sguardi. Da lì è iniziato il mio viaggio verso l’Ucraina.

Comprendo che il momento è buono, perché alcuni di loro mi cercano con gli occhi come se avessero trovato il coraggio di parlare. Allora tentennante mi avvicino ad una famiglia e come tiro fuori il traduttore quasi a dire “Posso? Non voglio essere invadente”, questa donna mi spiazza con un abbraccio forte e le sue lacrime mi bagnano il collo. Non so che fare, se ricambiare o rimanere immobile, sono spiazzata. Così lascio cadere il registratore in tasca e ricambio l’abbraccio.

Il suo volto è segnato, i tratti sono tirati dalla stanchezza. Un viso provato dalle notti insonni nelle stazioni, affranto. Ha gli occhi gonfi per il pianto, lo si evince da quel color rosastro dato dalle innumerevoli lacrime che, probabilmente, da giorni le solcano le guance.

Ha un piumino verde, un cappello marrone di lana e un pantalone nero con degli scarponcini. E’ vestita a strati, troppi. “Mi chiedo, sarà per il freddo o per portare qualcosa in più che non entrava nelle valige e nelle buste”.

Mi guardo attorno e vedo donne, tantissime donne sole, bambini spaesati con lo sguardo perso che abbracciano il loro peluche. Probabilmente l’unica cosa che li fa sentire ancora a casa e “al sicuro”. Animali, cani, gatti e conigli, senza i quali non si sarebbero mai mossi.  

È pieno di anziani intenti a tenere tra le braccia nipoti o a rassettare quelle buste piene di ricordi. Anche loro piangono silenziosamente, ma sembrano rassegnati, forse per l’età o forse perché ne hanno già viste tante. Mi chiedo da dove vengano, quanto tempo avranno impiegato a fuggire e soprattutto, chissà se hanno perso cari, amici o la casa. Ho una rabbia mista a dolore che non posso esprimere. Nel XXI secolo, siamo ancora qui, a parlare di guerra, come se fossimo tornati in dietro di 20 nei Balcani o di 83 anni e più con le Grandi Guerre.

L’uomo dovrebbe sfruttare la memoria e l’intelletto per non ripetere gli errori, tutto si rigenera, anche la stupidità umana dettata dalla sete di potere, di dominio, di brama. Ciò che sta accadendo ci dimostra che l’uomo, non ha mai imparato e non imparerà mai dai suoi errori. Einstein diceva: “Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la Quarta si: con bastoni e pietre”. A dimostrazione del fatto che l’uomo anziché andare avanti, tende a regredire. Così come è successo con le più grandi civiltà del passato.

Anna si asciuga gli occhi, si ricompone e mi sorride, poi si prepara come se aspettasse le domande. “Io e la mia famiglia veniamo da Sumy, abbiamo impiegato 10 giorni ad arrivare qui. Le file erano interminabili, la gente si accalcava l’una sull’altra. – così come loro, anche le migliaia di famiglie qui presenti vengono da ogni dove: Donbass, Kivy, Sumy, Bielorussia, Odessa, Kharkiv, Lviv -  Abbiamo avuto fame, freddo, sonno. Alle stazioni abbiamo trovato sempre qualcuno che ci dissetava, sfamava, ma eravamo e siamo persi. Anche se ci siamo salvati, siamo morti dentro. – così Anna continua come un fiume in piena – Ho perso la casa, una casa costruita dai miei genitori e dai miei nonni con fatica. Non abbiamo più nulla – e con una lacrima silenziosa che le scende dal viso guarda il figlio e mi dice – dove tornare? Non so più chi sono e dove sto andando, ma ho una certezza, sono ucraina!”.

Le chiedo se ha perso qualcuno, ma che se non se la sente può evitare la domanda. Mi risponde: Ho perso degli amici. Forse sono ancora sotto le macerie della loro casa. È stato tutto così veloce che non abbiamo avuto modo di capire cosa stesse succedendo. – si ferma, singhiozza e mi ripete – Non ho più una casa, un lavoro, un tetto dove tornare. Rivoglio le mie radici! Che futuro darò a mio figlio?”.

Con un immenso desiderio di ritornare nella propria terra, alle proprie radici, questa donna a ieri non sapeva dove andare. Penso a quali prospettive possano esserci, a come la follia di una guerra può destabilizzare il presente ed il futuro di una famiglia e quello di intere generazioni a venire. Rimango impietrita davanti a tanto dolore. Vorrei farle più domande, ma ciò che mi trasmette mi disarma. Chiudo il microfono e mi riabbraccia. Mi sussurra qualcosa nell’orecchio che non capisco e poi mi dice “Dyakuyu” (Grazie in ucraino). Le chiedo cosa ha detto nell’orecchio me lo ripete: “Chy my pravosuddya kazhe, shcho vidbuvayet’sya. - Fateci giustizia, raccontate cosa accade!”

Capisco che non vuole essere fotografata e non insisto. Il suo volto non lo dimenticherò mai, resterà per sempre stampato a fuoco nei miei ricordi. Ad oggi non so dove sia Anna o se sia tornata, le auguro solo di ritrovare quelle radici che ha perduto.

Esco e la rabbia esplode, quando un volontario italiano e siciliano mi dice: “Noi siamo qui da poco, ma è fondamentale che si comunichi con quale associazione si viene, perché abbiamo scoperto che ci sono presunti “volontari” che chiedono compensi per portare via le persone”. Rimango basita, chiedo conferme ed altri volontari mi spiegano che sono stati individuati e mandati via, ma che hanno creato un pregresso anche tra i profughi, che hanno il timore di affidarsi a chiunque si presenti.

Cartelli ovunque, con su scritto Germania – Francia – Spagna e autobus con bandiere dell’Italia e così discorrendo.

Vorrei esplodere, l’infinità miseria umana arriva a speculare ovunque. Ma allora di cosa parliamo se anche qui, in questo contesto, dove centinaia di migliaia di onesti volontari si danno da fare venendo da qualsiasi parte del mondo, troviamo anche queste “beate teste gloriose”. Ricordiamoci che è, anche, da questi gesti che riparte un modo migliore.

Nelle molte altre interviste ho scoperto cose ancora più assurde, alcune delle quali sono in fase di indagine, ma confermate nelle zone est e sud del conflitto. Da qui ho iniziato il mio viaggio nella sofferenza di chi fugge. Da quel giorno molte domande mi tormentano. Certi luoghi, certe cose non potranno più andare via. Scalfite come fuoco su pelle, ricorderò la sofferenza e la cicatrice non scomparirà più.

Continua…