È stato un Marco Minniti inedito quello che si è svelato ai microfoni di Vis-à-vis, la trasmissione condotta dal nostro direttore strategico Paola Bottero. Inedito non solo perché ha rivelato di aver avuto anche lui i capelli («biondi e ricci», ha tenuto a precisare), ma soprattutto perché l’ex ministro si è messo davvero a nudo, raccontando la sua storia politica, le sue passioni fuori dalle istituzioni, la sua adolescenza a Reggio, il rapporto, con qualche tempesta, con la sua famiglia.

La passione politica

Un racconto appassionante di una generazione che è vissuta di pane e politica e in cui tutto alla politica si riconduceva. E se Walter Veltroni ha rivendicato di non essere mai stato comunista, Minniti al contrario esalta quella esperienza e quella tradizione. Di più: dice di aver sempre pensato alla sua storia personale come storia collettiva. Dice che non sarebbe diventato quello che è ora senza il confronto e la militanza con quei compagni e quelle compagne. Una cosa strana a sentirsi vista la situazione attuale e soprattutto visto il rapporto fra lui e il Pd in cui diversi pensano sia l’uomo da nascondere, per il suo approccio sui temi dell’immigrazione e della sicurezza. Argomenti che non sembrano sfiorare Minniti che ricorda gli anni tumultuosi della rivolta di Reggio Calabria, quando la città era divisa in “Repubbliche” ovvero in quartieri delimitati da barricate. Quella stagione per Minniti ha segnato il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, ma soprattutto ha segnato una scelta di campo netta.

I rapporti familiari

Di fronte alle scuole orami utilizzate per ospitare i reparti della Celere, il giovane Marco decise che sarebbe diventato comunista per lo sconforto della famiglia che ha una lunga tradizione di destra essendo composta per gran parte da militari. «Quando mi iscrissi al Pci e decisi poi di laurearmi in filosofia, mio padre pensava che seguissi cose un po’ inutili con grande rammarico visto che ero l’unico figlio maschio fra l’altro inseguito a lungo».
Il padre non ha vissuto abbastanza a lungo per vederlo salire le varie postazioni istituzionali che ha ricoperto. Però un giorno a Palazzo Chigi è arrivata una telefonata. Un certo Minniti lo stava cercando proprio quando era esplosa la guerra in Kosovo. Era lo zio, Giovanni, generale delle Forze Armate che gli disse secco: «Domenico, siamo fieri di te». Nemmeno il tempo di replicare che lo zio aveva già attaccato, ma Minniti ha sempre interpretato il gesto come una sorta di riconciliazione con la sua famiglia di origine.

I temi della sicurezza

L’aneddoto serve a Minniti anche per spiegare la sua specializzazione sui temi della sicurezza di cui giura di non essersi mai occupato prima del ‘98. Quell’anno era appena stato nominato sottosegretario agli Interni. In casa gli avevano appena installato il “telefono rosso”, quello delle chiamate di crisi. Minniti dice che pensava che quel telefono non avrebbe mai squillato e invece una notte trillò. Era arrivato in Italia Ocalan, leader del Pkk, il partito comunista curdo, che ancora oggi è in carcere in Turchia. Bisognava gestire questo delicato dossier e lui era la persona individuata. È da allora che ha iniziato ad occuparsi di intelligence e sicurezza che giura non era una sua predisposizione naturale.

Il legame con Reggio

Tornando agli anni di Reggio, Minniti si commuove nel ricordare la figura di Peppino Valarioti e racconta di come la sera in cui è stato assassinato anche lui doveva essere in quel ristorante. Rifiutò all’ultimo l’invito perché la mattina dopo doveva andare a fare apnea e quindi voleva riposare. Minniti ricorda queste cose per sottolineare come quell’omicidio segnò un punto di svolta con la ‘ndrangheta che aveva avviato una sorta di stagione di terrorismo mafioso: dare un segnale netto a chi si oppone, in quel caso il segnale era alla sinistra attraverso un suo militante.

La sinistra che ritorna come stella polare. Ma non è solo a lei che parla oggi Minniti. L’ex ministro degli Interni sa che il quadro politico italiano è in rapido mutamento, c’è un’ampia fetta di elettorato moderato che non ha più casa politica ed è in cerca di risposte. Minniti avrebbe la capacità di aggregare queste persone, per la sua storia politica, per la leadership che ha coltivato fin da ragazzino (nei boyscout era quello che animava le serate intorno al fuoco). Difficile quindi pensarlo lontano dalla politica dopo le sue dimissioni dal Parlamento. Minniti dice che la Fondazione di Leonardo è un altro modo di fare politica, avvicinare Oriente e Mediterraneo garantendo un ruolo di primo piano all’Italia che si trova proprio al centro di questo importantissimo spazio geopolitico. «Si può fare politica anche fuori dal Parlamento», dice Minniti. Ma in tanti sono disposti a giurare che si può fare anche fuori dalla Fondazione visto il deficit che c’è di classe dirigente nel Paese e soprattutto in Calabria. La puntata è disponibile su LaC Play, clicca qui per rivederla.