Nell’area grecanica della Calabria il vuoto si allarga. Si svuotano le case, si chiudono le imprese, si diradano le prospettive. Il lento spopolamento di questo territorio, proseguito per decenni tra indifferenza e marginalità, ha trovato negli ultimi anni un’accelerazione feroce, e non soltanto per cause economiche.

«Abbiamo perso migliaia di posti di lavoro e migliaia di abitanti», ha detto Pierpaolo Zavettieri, sindaco di Roghudi e presidente dell’associazione dei comuni dell’area, intervenuto in diretta durante il Tg di LaC News24. Una perdita, spiega, che non può essere spiegata soltanto con il calo demografico o la crisi del mercato edilizio, ma che si intreccia direttamente con il modo in cui è stata condotta la lotta alla criminalità organizzata.

«Per colpire il tumore, lo Stato ha colpito anche le parti sane». L’immagine usata da Zavettieri è netta, chirurgica, quasi clinica. Parla di una chemioterapia somministrata a un tumore circoscritto, che però finisce per intaccare anche i tessuti intatti, provocando danni irreversibili all’intero organismo.

«Nel tentativo di estirpare la criminalità organizzata – ha spiegato – sono state colpite anche imprese, lavoratori, istituzioni che nulla avevano a che fare con quei circuiti». La metafora rende l’idea di un intervento repressivo che, invece di isolare con precisione le cellule malate, agisce in modo aggressivo e sistemico, trascinando con sé interi comparti produttivi e segmenti di comunità che avrebbero dovuto essere protetti.

L’effetto è duplice: da una parte, l’indebolimento solo apparente o comunque temporaneo delle strutture criminali; dall’altra, la distruzione progressiva del tessuto sociale sano, lasciato senza strumenti, senza tutele, senza prospettive.

Il vuoto lasciato dal lavoro che scompare

La fotografia sociale scattata da Zavettieri parte dai numeri, ma non si ferma lì. Secondo un’analisi condotta dalla Camera di Commercio e da Assindustria, tra il 2015 e il 2018 il settore edile nella città metropolitana di Reggio Calabria ha registrato una perdita di circa 7000 posti di lavoro, passando da quasi 9000 iscritti alla cassa edile a circa 2000. Un crollo verticale, concentrato in appena tre anni.

Una parte consistente di questa emorragia ha colpito direttamente i comuni dell’area grecanica, dove la crisi ha trovato terreno fertile in una fragilità strutturale già radicata.

«Solo nella nostra fascia si possono stimare almeno 2000 posti di lavoro in meno», ha detto Zavettieri. «E se moltiplichi questo dato per i nuclei familiari coinvolti, parliamo di almeno 6000 persone che hanno lasciato queste zone».

Numeri che, se rapportati alla dimensione del territorio, restituiscono una ferita non assorbita, visibile nei centri abitati dimezzati, nei cantieri fermi, nelle saracinesche abbassate per sempre. Il declino demografico, così, diventa la conseguenza diretta di un modello di intervento che ha inciso sul presente senza tutelare il futuro.

Quando un’impresa chiude, non si spegne solo un’attività economica. Si interrompe una rete fatta di famiglie, lavoratori, fornitori, relazioni quotidiane. E se manca una strategia per proteggere queste reti, il risultato è uno solo: si svuotano i paesi, e con loro ogni possibilità di riscatto.

L'effetto devastante delle retate “a strascico”

C'è un punto, nel discorso di Zavettieri, in cui la critica si fa più netta, e riguarda le modalità con cui viene condotta la repressione dello Stato. La formula è precisa, visiva: «Retate a strascico, operazioni giudiziarie su larga scala che finiscono per travolgere tutto ciò che incontrano, senza distinguere con chiarezza chi deve essere colpito da chi dovrebbe essere protetto».

«Io non metto in dubbio la correttezza del principio repressivo – prosegue Zavettieri –. Ma quando tu fai le retate a strascico, con 300, 200, 150 arresti, rischi di colpire anche chi non ha nulla a che fare». È un nodo centrale, l'idea che l’azione dello Stato debba essere efficace, ma anche chirurgica, misurata, proporzionata. E che non possa generare vittime collaterali, lasciandole senza alcuna forma di salvaguardia.

«Come quando prendi un antinfiammatorio per il mal di gola e ti rovina lo stomaco: ti curi da una parte e ti ammali dall’altra», aggiunge. Un paragone che torna più volte nell’intervista, e che riflette una consapevolezza profonda: l’intervento repressivo, se non è accompagnato da misure di tutela sociale, rischia di peggiorare la condizione generale del territorio.

E non basta, secondo Zavettieri, affermare che “qualche impresa era necessario interdirla”. Il punto è un altro. «Sarebbe stato giusto – chiosa il sindaco – colpire anche qualcun altro, magari più pericoloso, che invece non è stato toccato». E soprattutto, non si è fatto nulla per salvare ciò che poteva e doveva essere salvato.

Aziende sequestrate e lasciate morire

Nel racconto di Zavettieri c’è un passaggio che pesa più di altri, perché tocca il punto esatto in cui la repressione si è trasformata in un danno strutturale per il territorio: la gestione delle imprese sequestrate.

«Io non metto in dubbio la necessità di intervenire. Qualche impresa era giusto interdirla», afferma. Ma subito dopo precisa che il problema sta nel vuoto lasciato da quelle interdittive, nell’assenza totale di misure che potessero garantire la continuità di aziende sane o borderline, ma vitali per l’economia locale.

«È stato colpito tutto in blocco, senza strumenti di salvaguardia. E così ci hanno rimesso lavoratori, famiglie, comunità intere». Il bersaglio, stavolta, non è solo il provvedimento in sé, ma l’intero sistema di gestione giudiziaria delle imprese sequestrate, affidate a figure che, nelle parole del sindaco, hanno mostrato «una preoccupante disattenzione verso il destino dei dipendenti».

«La stragrande maggioranza degli amministratori giudiziari si è preoccupata solo di incassare lo stipendio – denuncia –. Uno bravo ogni cento. Gli altri? Nessun impegno reale a mantenere viva l’azienda, a tutelare i posti di lavoro. Niente. Solo l’obiettivo di portare a casa la loro spettanza mensile».

La critica si allarga fino a citare il caso emblematico del giudice Saguto, condannata in Sicilia a otto anni per la gestione opaca dei beni confiscati. «Avevano creato un sistema per cui gli stessi curatori fallimentari gestivano anche 30, 40, 50 aziende contemporaneamente – spiega Zavettieri –. E non si preoccupavano minimamente di garantire gli stipendi, né la continuità produttiva. Solo di restare incollati a quella funzione per prenderne i frutti».

Dietro ogni sigillo imposto a un’impresa, secondo lui, c’è stato un corto circuito che ha colpito sempre gli stessi: i lavoratori. «Un amministratore giudiziario serio dovrebbe preoccuparsi che i dipendenti vengano pagati, che l’attività vada avanti, che l’azienda possa sopravvivere. Questo, nel 95-97% dei casi, non è avvenuto».

Lo scioglimento dei comuni

La repressione colpisce anche i vertici amministrativi. Uno dei temi più delicati sollevati da Zavettieri è quello dello scioglimento dei consigli comunali per presunte infiltrazioni mafiose. Uno strumento che, nelle intenzioni, dovrebbe proteggere le istituzioni locali, ma che spesso finisce per svuotarle, lasciando i cittadini senza rappresentanza.

«La maggior parte dei comuni viene sciolta senza un provvedimento giudiziario. È un atto amministrativo che arriva prima di qualunque prova concreta», spiega Zavettieri. E qui il riferimento è esplicito: la violazione dell’articolo 27 della Costituzione, che sancisce la responsabilità penale personale.

«Se io compio un reato, non possono arrestare te o mio fratello. E invece oggi funziona così».
Il meccanismo si inceppa proprio nella mancanza di collegamento diretto tra l’azione penale e l’atto amministrativo. «La legge prevede che si possa sciogliere un consiglio comunale anche in assenza di un’inchiesta, di un’indagine, di un’accusa formale. Basta un sospetto, un’ombra, un nome nella lista giusta o sbagliata».

Zavettieri pone una questione cruciale: come si può pretendere che le istituzioni locali siano solide, se vengono cancellate senza un riscontro giudiziario concreto? E rilancia: «Se fosse applicata bene la legge ordinaria, senza ricorrere a quelle speciali per le infiltrazioni mafiose, non avremmo amministratori criminali alla guida dei comuni».

Il punto, allora, è anche di metodo. «Chi si candida, se è un criminale, prima o poi viene scoperto, condannato, rimosso. Ma se invece si applicano strumenti eccezionali, si rischia di colpire anche chi non ha nulla da nascondere».

Sindaci lasciati soli, lo Stato che non ascolta

Nel racconto di Zavettieri c’è anche la frustrazione di chi, da anni, prova a chiedere un confronto con lo Stato senza ricevere risposta. Una distanza istituzionale che, negli anni, si è tradotta in isolamento, delegittimazione, abbandono.

«Nel 2017 eravamo 51 sindaci a chiedere un incontro al Ministero dell’Interno. Non ci ha voluto ascoltare nessuno», ricorda. Una richiesta formale, avanzata da amministratori locali di ogni estrazione politica, per discutere insieme come affrontare le criticità dei territori colpiti dalle misure antimafia.
Ma nessun tavolo venne mai aperto, nessuna interlocuzione avviata.

Per Zavettieri è un errore grave. «I sindaci sono le sentinelle del territorio. Se non si ascoltano loro, se non si riconosce il loro ruolo, non ci potrà mai essere un contrasto efficace alla criminalità». Perché le misure di repressione, da sole, non bastano. Serve una strategia costruita dal basso, condivisa, pensata insieme a chi è sul campo.

Un altro modo di intervenire è possibile

Le denunce, per Zavettieri, non servono a sollevare un polverone. Servono a mettere a fuoco ciò che non ha funzionato, e soprattutto a indicare una via diversa. È qui che emerge la proposta politica, la visione istituzionale che affida alla prevenzione e al lavoro la chiave per rendere duraturo e giusto il contrasto alla criminalità. «Lo Stato deve cambiare paradigma. Non può intervenire sempre e solo ex post», afferma.

L’idea è che l’azione repressiva non debba arrivare quando tutto è già compromesso, ma prima, quando è ancora possibile rafforzare gli anticorpi sociali, economici, culturali di un territorio. «Serve una strategia alternativa. Bisogna colpire la criminalità, ma bisogna anche pensare a ciò che resta dopo. Perché ogni volta che cade un sistema criminale, si apre un vuoto. E se nessuno lo riempie, quel vuoto si riforma». Il nodo, ancora una volta, è il lavoro.

«Lo strumento del lavoro è essenziale. È l’unico modo per togliere i giovani dalla disponibilità del boss di turno», dice. Senza reddito, senza speranza, senza legami con la società attiva, le nuove generazioni diventano vulnerabili, intercettabili, assorbibili. «Se l’unico che ti considera è il picciotto, finisci per ascoltarlo. E a forza di frequentarlo, ti rendi anche disponibile».

A questo si aggiunge il dovere dello Stato di coinvolgere le comunità, invece di isolarle. Di sostenerle, anziché ridurle al silenzio. Di costruire «strumenti per chi rischia di essere travolto da provvedimenti che, pur legittimi nei presupposti, rischiano di devastare tutto ciò che trovano intorno».