Tre parole aggiunte da una parte, altre quattro sostituite con sei nuove dall'altra e la possibilità di tutelare il diritto di concorrere per ottenere in concessione un pezzo di spiaggia in Calabria rischiava di sparire. Così la Corte costituzionale ha deciso di accogliere in toto il ricorso del Governo contro la legge regionale 46/2019 - quella, appunto, che regolava la materia introducendo discutibili novità rispetto al passato – giudicandola in contrasto con le norme statali e le direttive comunitarie.

Nove parole per stravolgere una legge

Oggetto del contendere era l'articolo 14, comma 2, della norma calabrese, una versione aggiornata di quello contenuto dalla precedente legge in vigore dal 2005. Il testo originario stabiliva che «Nelle more dell'approvazione del Piano comunale di spiaggia […] possono essere rilasciate concessioni demaniali marittime stagionali», ma la Calabria aveva inserito tre parole dopo quel «possono essere rilasciate», ossia «o comunque rinnovate». Le «concessioni marittime stagionali», poi, erano diventate «concessioni demaniali pluriennali di natura stagionale». Cosa significa? Che chi aveva già una concessione avrebbe potuto mantenerla, in linea teorica, per l'eternità, con buona pace di chi legittimamente sperava di ottenerla e sostituirsi così al precedente beneficiario.

Stato e Ue ignorati

Quella modifica del testo, secondo il Governo, andava a violare innanzitutto la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. Invece di favorirla, anzi, la norma era «suscettibile di determinare un prolungamento del rapporto in favore del concessionario ancora perdurante, dando luogo, sostanzialmente, ad una proroga o ad un rinnovo automatico». Di più: dire che le concessioni avrebbero potuto avere durata pluriennale equivaleva a «rendere del tutto indeterminata la durata di tale proroga o rinnovo automatico».
Tanti saluti alla competenza esclusiva dello Stato, quindi, sui criteri e le modalità di affidamento, nonostante non mancassero sentenze precedenti che qualificavano come «costituzionalmente illegittimi rinnovi e proroghe automatiche sia sotto il profilo della disparità di trattamento tra aspiranti concessionari e titolari che abbiano beneficiato della proroga automatica che sotto l'ulteriore profilo della barriera all'ingresso di nuovi operatori». E chi se ne frega delle numerose procedure di infrazione portate avanti in questi anni dall'Ue contro l'Italia.

Vantaggi per il privato, non per il pubblico

La norma calabrese introduceva una disciplina «propria e specifica in maniera indipendente da quella nazionale ed oltretutto non conforme ad essa», incurante del fatto che sia sempre lo Stato a stabilire cosa si possa fare con le spiagge in modo da assicurare coerenza e uniformità in ambito nazionale. La scelta della Calabria, poi, sarebbe stata controproducente anche da un punto di vista economico, dando vita «ad un irrazionale e poco efficiente gestione delle funzioni amministrative sul demanio marittimo».

A essere violato in questo caso era l'articolo 97 della Costituzione, dal momento che «il rinnovo delle concessioni secondo principi di competitività è senz'altro più conforme al principio di buon andamento, in quanto consente una maggiore efficienza del sistema, stimolando i nuovi entranti a svolgere un uso più efficiente del demanio marittimo o ad offrire canoni più elevati rispetto ai concessionari uscenti e, dunque, appare più vantaggioso, in termini generali, rispetto all'interesse pubblico sotteso all'affidamento in concessione». In pratica, con le modifiche introdotte si favoriva il privato - o, peggio ancora, qualche privato in particolare - a discapito del pubblico.

La difesa della Regione non evita lo stop

A nulla è valsa la difesa della Regione, che sosteneva di voler «tutelare, valorizzare e promuovere il bene demaniale delle coste italiane» e «garantire l'occupazione e il reddito delle imprese» con la nuova legge, ritenendo che concessioni di breve durata potessero vanificare gli investimenti effettuati dagli imprenditori che le avevano ottenute. I giudici l'hanno pensata all'opposto, ritenendo che l'introduzione di proroghe di durata indeterminata avrebbe sortito l'effetto paventato dal Governo oltre a costituire un tentativo, da parte della Calabria, di attribuirsi competenze che spettano allo Stato. Non solo, la legge regionale 46/2019 sembrava seguire le norme statali per quanto riguardava le nuove concessioni, ma al contempo «nulla prevede quanto all'ipotesi del mero rinnovo delle concessioni esistenti».

Il rinnovo, così facendo, secondo i giudici «finisce per essere sottratto alle procedure a evidenza pubblica» in barba ai principi statali e comunitari. Con quale effetto? «Consentire de facto la mera prosecuzione dei rapporti concessori già in essere, con effetto di proroga sostanzialmente automatica – o comunque sottratta alla disciplina concorrenziale – in favore dei precedenti titolari». Qualcosa, cioè, che viola apertamente la Costituzione. E che, «comportando la possibilità di rilasci o rinnovi a tempo indeterminato delle concessioni in favore di un unico titolare avrebbe reso quest'ultimo ingiustificatamente privilegiato rispetto ad ogni altro interessato». Ossia un'ulteriore violazione dei principi di tutela della concorrenza. I quindici giudici della Corte non hanno avuto dubbi: legge bocciata, con buona pace dei privilegiati che speravano di beneficiarne.

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