La presidenza Leone, nella prima fase ebbe un corso sostanzialmente tranquillo. Più che altro solleveranno qualche polemica alcune sue memorabili gaffe. Tuttavia la sua presidenza in qualche modo venne definita anomala. Leone fu il primo e fino ad oggi unico presidente costretto alle dimissioni prima della fine del mandato (anche Cossiga si dimetterà prima della scadenza, ma sarà per sua decisione), ma anche per gli anni in cui si svolge la sua presidenza: anni di violenze e di durezze, giustamente definiti «di piombo», che ad alcuni dei contemporanei sembrarono addirittura preludere ad una guerra civile. Sono gli anni delle «trame nere», delle bombe al treno Italicus e a piazza della Loggia, dei complotti, come quello della «Rosa dei venti», del golpe bianco di Edgardo Sogno e Luigi Cavallo (in cui Leone sarà uno dei bersagli da neutralizzare), degli opposti estremismi, con la morte del procuratore generale della Repubblica Francesco Coco e del sostituto procuratore Vittorio Occorsio; una striscia di sangue che si allunga durante gli anni fino al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.

Quando verrà fatta l’analisi di quegli anni risulterà che nelle azioni eversive erano coinvolte poche migliaia di persone, con un paese impaurito ma rimasto sostanzialmente estraneo allo scontro, che vedeva protagoniste minoranze di estrema destra e di estrema sinistra. In quegli anni nasce tuttavia una nuova cultura che interessa tutto il paese: la cultura della contestazione, che non è solo quella più visibile degli studenti contro i professori o degli operai contro i padroni, ma è quella di tutti o di molti contro tutto, che mette in discussione principi e valori, ideologie e istituzioni, in un clima di irrazionalità e di risentimenti.

A prescindere dalle accuse più gravi e dagli scandali che gli verranno imputati, e da cui uscirà sostanzialmente assolto, Giovanni Leone è vittima di questo clima che esplode negli ultimi anni del suo mandato e lo travolge. Gli attacchi di cui è fatto oggetto da parte della stampa quotidiana e soprattutto periodica e degli ambienti intellettuali – fino al libello di Camilla Cederna, Giovanni Leone, la carriera di un presidente, che esce nel marzo 1978, a tre mesi dalle dimissioni, e che costituisce una sistematica opera di demolizione del personaggio e dell’ambiente politico e sociale in cui si è mosso dall’inizio della sua attività professionale – sono di una violenza e di una crudezza tali da essere comprensibili solo nel drammatico contesto dell’Italia settantottina.

Ugo la Malfa a commento di un discorso del Presidente tenuto a palazzo Giustiniani in occasione del 30° anniversario della costituzione, accusò la classe dirigente a cui apparteneva Leone di avere la responsabilità della decadenza della Repubblica.Giovanni Leone era indubbiamente un esponente di quella classe politica e le critiche di La Malfa – che era stato uno dei sostenitori della sua elezione e che poi sarà uno dei primi a chiederne le dimissioni – erano in parte dirette al capo dello Stato, a cui molti rimproveravano una pratica di piccoli e meno piccoli favoritismi e un familismo spesso confinante con il clientelismo.

Con l’elezione di Leone, al Quirinale non arrivava solo il presidente, ma una famiglia così numerosa da assomigliare ad un clan. Leone amava vivere in società, al centro di compagnie di bon vivant, anche se non sempre di qualità e di buona cultura e, a differenza dei suoi colleghi politici, prediligeva la frequentazione di industriali, uomini d’affari e di finanza le cui operazioni erano condotte talvolta ai limiti della legalità: i fratelli Lefebvre, strettamente legati alle autorità politiche e militari americane e dediti al commercio delle armi; Camillo Crociani, presidente di Finmeccanica; Nino Rovelli, presidente della Sir. L’elenco è lungo, e si tratta quasi sempre di uomini che presto o tardi si troveranno al centro di grosse combinazioni affaristiche, spesso forniture militari, e che inevitabilmenteverranno coinvolti nello scandalo degli aerei «Hercules» della Lockheed o in altre grandi e piccole operazioni speculative. Sono ambienti, quelli frequentati da Leone, nati appunto con le «pratiche di corporativismo» denunciate da La Malfa. Anche se Leone non è direttamente coinvolto in operazioni poco chiare – cosa comunque difficile da stabilire, dato il numero di potenziali prestanome che gli stanno attorno, familiari compresi –, la sua frequentazione di uomini che vi sono coinvolti e che presto o tardi si troveranno al centro di processi clamorosi lo espone a sospetti e a critiche che ne indeboliscono la posizione e contribuiscono ad un certo isolamento politico. Ma le ragioni delle sue forzate dimissioni sono più complesse e sono strettamente legate al clima politico degli ultimi due anni di mandato.

La gaffe del presidente Leone

Leone amerà viaggiare all’estero, anche se con obiettivi del tutto diversi da quelli di Gronchi e con altri interessi rispetto a Saragat. Per lui, che di politica estera non si era mai occupato negli anni della militanza e della carriera parlamentare, i viaggi erano occasioni di incontri sociali a cui partecipare con la consorte Vittoria, nonché di esperienze turistiche durante le quali il presidente si lasciava andare, talvolta al dilà dei limiti dal cerimoniale e dell’etichetta. Quando trovava un’accoglienza cordiale e un ambiente amichevole non era raro che si esibisse come cantante – accadde in occasione di un ricevimento della comunità italo-americana durante il suo viaggio in America, nel settembre del ’74 – o addirittura come ballerino, come avvenne a Tbilisi durante un viaggio nell’Unione Sovietica (1975) dopo un pranzo di addio della locale municipalità. Quasi storica la foto di Leone durante una visita all’Università di Pisa che dalla vettura presidenziale fa il segno delle corna ad un gruppo di contestatori che agitano un cartello: «Morte a Leone!». Gaffe diplomatiche ed eccessi di presenzialismo non mancano, come quando, durante il viaggio a Parigi (ottobre 1973), si portò al seguito una carovana di amici e di parenti e il vasellame del Quirinale; o quando, durante il viaggio in Iran (1973), ospite dello scià, davanti alla statua di Ciro il Grande commentò: «Anche noi a Napoli abbiamo il nostro Ciro» (Ciro a Mergellina, che è un noto ristorante). O come quando – secondo qualcuno – avendo un ospite scomodo, il dittatore ugandese Amin, lo invitò a colazione nella tenuta di Castelporziano insieme al personale di servizio, facendogli credere che erano gli invitati150. Ma l’evidente intenzione dei suoi criticie detrattori (in primo luogo Camilla Cederna) di affibbiargli un’immagine clownesca è malevola e certamente eccessiva. Chi viene a contatto con Leone si rende conto che gli atteggiamenti non irreprensibili del presidente sono l’espressione di un’autentica cordialità e di una natura aperta allo scherzo e alla battuta e riflettono quella napoletanità popolare che talvolta lo fa apparire grossolano e provinciale.

Il cambiamento avviene con l’esplosione del «caso Lockheed». Anche la stampa, che fino ad allora gli era stata moderatamente favorevole, salvo registrare qualche gaffe e qualche pettegolezzo, gli diventa ostile. Quello della Lockheed è il più grosso scandalo nella storia della Prima Repubblica. Colpirà uomini della politica e dell’economia e diventerà il principale capo di accusa, ma non l’elemento decisivo delle dimissioni del presidente. Lo scandalo è internazionale, investirà il primo ministro giapponese, KakueiTanaka, e persino la monarchia olandese nella persona del principe consorte Bernardo. Per indurre i governi ad acquistare aerei Hercules da trasporto C130, l’impresa americana che li costruiva (la Lockheed appunto) aveva corrotto uomini politici e intermediari a vario titolo e certamente in margine all’affare vennero distribuite mazzette milionarie.In Italia, accusati di corruzione furono il ministro Luigi Gui, che verrà assolto con formula piena, e il ministro socialdemocratico Mario Tanassi, che verrà condannato a due anni e quattro mesi di reclusione; tra i mediatori i fratelli Antonio e Ovidio Lefebvre, anch’essi condannati, Camillo Crociani, che riparò all’estero, e altre figure minori.

Leone veniva coinvolto nello scandalo esclusivamente sulla base di sospetti: per la sua intima amicizia con i fratelli Lefebvre e quella più recente con Camillo Crociani, nonché per la voce sparsasi in Italia e all’estero che dietro il nome in codice di «Antelope Cobbler», presentato come il personaggio chiave della vicenda, ci fosse proprio il capo dello Stato. I principali accusatori furono la stampa periodica, particolarmente le riviste «l’Espresso» e «Panorama», e i radicali Pannella e Bonino, mentre l’ultimo sistematico attacco al presidente e alla sua famiglia venne con il libro di Camilla Cederna, con brani tratti dall’agenzia scandalistica «Op» di Mino Pecorelli. Neanche dopo le lezioni politiche del 76 la campagna diffamatoria contro di lui accenna a diminuire.

Lo scandalo Lockheed resta ancora al centro dell’attenzione e nel marzo 1977 le Camere riunite decidono il rinvio a giudizio di fronte alla Corte costituzionale di Gui e Tanassi. Le speculazioni sull’identità di «Antelope Cobbler» continuano. Leone – su consiglio di Andreotti (consiglio che si rivelerà sbagliato) – decide di non rispondere direttamente agliattacchi per preservare la dignità della carica, ma non ci sarà nessuno che lo farà per lui. Alla vigilia delle elezioni, Leone considera anche la possibilità di dimettersi, ma in questa occasione saranno i costituzionalisti (tra cui Branca, Barile e Chiarelli) a sconsigliare le dimissioni, che avrebbero solo «gravemente turbato la vita delle istituzioni».Dopo l’assassinio di Moro la campagna di diffamazione, alimentata dall’uscita del libro della Cederna, raggiunge un livello insostenibile. Il PCI ne chiede le dimissioni. Un crescente clima di isolamento politico e dagli poteri dello gli fanno assumere la decisione di dimettersi.

Alle ore 20 del 15 giugno 1978, in un intervento televisivo, «in tono umanamente toccante» il presidente annunciava al paese le sue dimissioni, sei mesi prima della scadenza del mandato. «Finché le insinuazioni, i dubbi, le accuse hanno formato oggetto di attacchi giornalistici non suffragati da alcuna circostanza – dichiarava Leone – ho potuto far pesare sulla bilancia la necessità di non drammatizzare, imponendomi un silenzio che mi è stato rimproverato come silenzio, che mi ècostato amarezza e che risponde forse a tempi sorpassati. Ma nel momento in cui la campagna diffamatoria sembra aver intaccato la fiducia delle forze politiche la mia scelta non poteva essere che questa».La difesa più efficace di Leone verrà da un avversario politico, quello stesso Bufalini che era stato inviato dal Pci a chiedere le sue dimissioni. Intervistato da Piero Chiara qualche tempo dopo, così si esprimeva sul caso Leone: «A me non risultò mai nulla contro di lui. Infatti il Pci non si associò alla campagna di stampa che lo aveva preso di mira. A noi era stato chiaro fin dall’inizio delle accuse che per esempio la sigla Antelope Cobbler non indicava una persona ma una carica, la quale in quel tempo non era coperta da Leone»

Un partigiano come Presidente

La presidenza Leone si conclude con uno strascico di veleni. E in qualche modo con delle ammaccature al prestigio dell’istituzione. Il parlamento aveva dunque bisogno di una figura integerrima, dal rigore morale adamantino. L’ascesa di Sandro Pertini sul colle più importante della politica italiana avviene in questo contesto. Ottantadue anni portati con spirito giovanile, ligure della provincia di Savona (era nato a Stella San Giovanni il 25 settembre 1896), Pertini poteva vantare un curriculum eccezionale di politico dalla fede inossidabile e di uomo di massima affidabilità per le istituzioni repubblicane.Di famiglia borghese, benestante, ufficiale di prima linea sull’Isonzo durante la prima guerra mondiale (decorato con medaglia d’argento), avvocato, iscritto al Partito socialista dal 1918 (aderente alla corrente riformista di Filippo Turati, che avrebbe sempre considerato come il suo maestro), era entratosubito in rotta di collisione con il regime fascista ed era stato perseguitato per la sua attività politica.

Dure condanne al carcere, espatri clandestini in Francia (dove fuggì con un’operazione temeraria insieme a Turati ed esercitò i lavori più umili – dal laveur de taxi al manovale, dal pittore d’infissi alla comparsa cinematografica – per sbarcare il lunario), ancora arresti, confino e rocambolesche evasioni lo vedranno, nell’arco di un ventennio, protagonista di una strenua e irriducibile battaglia contro l’illegalità della dittatura, con episodi di alta e intransigente dirittura morale, destinati ad attribuirgli un carisma straordinario: come quello che lo portò a sconfessare la madre che aveva chiesto a Mussolini la grazia per lui, in cattive condizioni di salute, dal confino di Pianosa.Poi, l’epopea della guerra partigiana, della Resistenza, con Pertini coraggioso e audace combattente in prima linea nella battaglia di Porta San Paolo dopo l’8 settembre ’43, nel tentativo di difendere Roma dall’occupazione tedesca (catturato dalle SS, condannato a morte e transfuga, insieme a Saragat, grazie all’aiuto partigiano), e indisponibile a lasciare la trincea per la politica (rifiutò il ministero degli Interni offertogli da Nenni dopo la liberazione di Roma con queste parole: «No grazie, mi sono allenato a gettarmi con il paracadute, ho un amico della Raf che mi porterà oltre le linee»).

Membro della giunta rivoluzionaria militare del Cln insieme a Leo Valiani ed Emilio Sereni, determinato e inflessibile, favorevole all’esecuzione di Mussolini e degli altri ministri (in un discorso radiofonico destinato a diventare celebre sottolinea che il dittatore «dovrà essere e sarà giustiziato anche se pensiamo che egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso»); ma anche un Pertini umano e magnanimo – come è stato rivelato recentemente –, pronto a salvare la vita ad un gerarca di Salò, il generale Nunzio Luna, che viveva sotto falsa identità in una casa di proprietà di CarlaVoltolina, sua futura moglie.Eletto per due volte alla presidenza della Camera (nella V e nella VI legislatura), non abbandona – sino alla fine degli anni Sessanta – la milizia giornalistica (con la direzione prima dell’«Avanti!» e poi del «Lavoro» di Genova). Nonostante questo prestigioso background, la strada per il Quirinale inizialmente non gli fu spianata. Tra i più scettici il segretario del suo partito Bettino Craxi. Tra i due non è mai corso buon sangue. Durante il sequestro Moro – a differenza del segretario del Psi – Pertini si era schierato decisamente sulla linea della fermezza, contrario ad ogni trattativa con i brigatisti.

Aveva paragonato l’atteggiamento di Craxi a quello dei liberali e dei democratici che, nel 1922, spianarono la strada all’avvento del fascismo. Nelle prime schermaglie della battaglia per il Colle il nome di Pertini non fu preso in considerazione poiché il Psi sembrava orientarsi su Antonio Giolitti (in seconda battuta su Norberto Bobbio o Giuliano Vassalli) e il fronte dei partiti favorevoli alla politica di solidarietà nazionale restringeva le proprie opzionial binomio La Malfa-Zaccagnini. Craxi accettò di includere Pertini nella rosa dei «papabili» soltanto perché era certo che le principali obiezioni sarebbero venute dalla Dc e che al momento opportuno sarebbero stati proprio i dirigenti dello Scudo crociato a farlo cadere.la svolta si ebbe quando La Malfa, bloccato nelle sue aspirazioni quirinalizie dal veto di Craxi, gli rese la pariglia proponendo lui, in accordo con Berlinguer, la candidatura di Pertini.

A quel punto lo stato maggiore della Democrazia cristiana abbandonò la candidatura di bandiera di Guido Gonella, si allineò e fece propria la scelta di Pertini proprio perché questi non era un «uomo di Craxi» e appariva più vicino alle posizioni del fronte di «solidarietà nazionale» che non a quelle del partito di provenienza. Al segretario socialista non restò che fare buon viso a cattivo gioco. L’8 luglio 1978, al sedicesimo scrutinio, Pertini veniva eletto con un voto plebiscitario (832 sì su 995 votanti, pari all’83%),con il consenso di tutti i partiti dell’arco costituzionale. Era il primo socialista doc al Quirinale. Le attese generali dei principali partiti erano per una presidenza di alto valore simbolico e morale, ma priva di pregnanti iniziative politiche ed istituzionali, considerata anche l’età del nuovo inquilino del Quirinale. Pertini non tarderà a ribaltare ogni previsione, ponendosi come ineludibile punto di riferimento e segnando con la sua presenza la storia politica nazionale degli anni Ottanta.