Nessuna certezza sulla stabilizzazione di 4.500 Lsu e Lpu, per i quali è in forse anche il rinnovo dei contratti che scadono a fine anno. Eppure c’è chi sulle loro peripezie occupazionali si è costruito una carriera politica, come la deputata democrat, che prima delle ultime elezioni attaccava chiunque osasse mettere in dubbio l’efficacia del percorso tracciato insieme al presidente della Regione Mario Oliverio
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Illusi e abbandonati, ma ormai ci hanno fatto il callo. Sono quasi 30 anni che i cosiddetti Lavoratori socialmente utili vengono ricaricati come pupazzetti a molla ad ogni scadenza elettorale, sventolandogli sotto al naso la promessa di una stabilità occupazionale che non raggiungono mai. Ma stavolta la politica sta giocando più sporco del solito, perché a essere traditi non sono solo i lavoratori, ma anche i piccoli Comuni che a suo tempo si sono fidati di Regione e Parlamento a trazione Pd, amministrazioni che ora rischiano di finire seppelliti sotto una valanga di richieste di risarcimento danni promosse dagli stessi Lsu. Non solo le stabilizzazioni restano a rischio, a parte rari casi di grandi Comuni come quello di Reggio Calabria che recentemente ne ha varato 104, ma sono in pericolo anche i semplici rinnovi contrattuali, come ha denunciato ieri Anci Calabria.
Il cavallo di battaglia della parlamentare democrat
La situazione è molto complessa e riassumere da subito tutte le falle del sistema indurrebbe inevitabilmente chi legge a passare oltre. Andiamo, dunque, direttamente a nomi e cognomi. Il primo che viene in mente è quello di Enza Bruno Bossio, parlamentare calabrese del Pd e compagna di vita del Rasputin del governo Oliverio, Nicola Adamo.
La Bossio cavalca da anni il cavallo di battaglia della stabilizzazione degli Lsu, con parole che spesso hanno toccato vette di pura poesia. Un trasporto lirico e una passione che si sono intensificati tra il 2017 e il 2018 con l’approssimarsi della scadenza elettorale del 4 marzo scorso, che le ha poi assicurato lo scranno a Montecitorio. Man mano che si avvicinavano le elezioni, il destriero di guerra di Enza ha preso a galoppare travolgendo con furiosissimo sdegno chiunque osasse mettere in dubbio la reale possibilità di stabilizzare i lavoratori e, dunque, il suo coniglio nel cilindro. All’argomento Lsu, si contano decine e decine di interventi pubblici firmati Bruno Bossio. Una valanga di belle parole sulla fine del precariato in Calabria data per certa, che si arresta inspiegabilmente dopo la tornata elettorale. Da quando è stata eletta, il problema è uscito dal suo radar politico e lei ha smesso di inondare le redazioni giornalistiche di comunicati sull’argomento e di dettare dichiarazioni alle agenzie di stampa, concentrandosi su questioni più amene come la critica a Salvini. Eppure, non era stata affatto tenera nei confronti di chi sosteneva (e sostiene) che la presunta stabilizzazione dei precari sia una bomba innescata.
Lo sdegno verso chi metteva in dubbio "un caso di scuola"
Ai pochi sindaci che osarono mettersi di traverso chiedendo garanzie sulle procedure, riservò prima la rabbia dei giusti e poi il disprezzo dei nobili. «È diventata francamente stucchevole la polemica che alcuni sindaci, per fortuna pochi, stanno conducendo in relazione alla contrattualizzazione e alla stabilizzazione dei lavoratori ex Lsu-Lpu (notare l’uso strategico della preposizione “ex”, ndr) della Calabria. Se non ci fosse in mezzo il destino di centinaia di persone in carne ed ossa verrebbe da ironizzare sulla pervicacia “interrogativa” di alcuni di questi amministratori». Così scriveva il 9 marzo, a cinque giorni delle elezioni, in quello che si rivelerà poi essere l’ultimo intervento pubblico sulla questione precari. Quello precedente risale al 20 febbraio, dunque appena prima della chiamata alle urne. «Sul percorso per la stabilizzazione degli ex Lsu-Lpu si è misurata la differenza tra buona e cattiva politica – affermava Bruno Bossio in quell’occasione -. I lavoratori devono essere coscienti che ormai sono lavoratori a tutti gli effetti. Da percettori di un sussidio senza alcun diritto oggi avete cominciato il quarto anno di contrattualizzazione e potete guardare al futuro con la chiara prospettiva della definitiva stabilizzazione. Il vostro è un caso di scuola di come devono essere affrontate le questioni e di come la politica può costruire risposte concrete e praticabili». Un caso di scuola, lo definisce l’esponente Pd. E in effetti da tutta questa vicenda c’è tanto da imparare e da tenere a mente, spaziando dall’educazione civica alla storia.
La storia di un sistema tutto italiano
I lavori socialmente utili e di pubblica utilità (Lpu) nacquero all’inizio degli anni ’90 per offrire un’integrazione al reddito ai disoccupati che avessero terminato la cassa integrazione straordinaria. Il principio era semplice: per non farti restare con le mani in mano e senza il becco di un quattrino, ti diamo un sussidio in cambio del tuo impegno in attività rivolte alla collettività (servizi sociali, tutela dell’ambiente, decoro urbano e così via). Lavori utili, appunto. La degenerazione, però è stata praticamente istantanea, e gli Lsu si sono trasformati in precari cronici della pubblica amministrazione destinati a riempire le caselle vuote delle piante organiche, quindi la maggioranza di loro è finita a fare il dipendente pubblico senza però esserlo. Una situazione che tutto sommato faceva contenti tutti: i “disoccupati”, che sbarcavano il lunario, sebbene sottopagati rispetto a un dipendente inquadrato con tutti i crismi; gli enti locali che potevano contare su una forza lavoro a costo zero per le loro casse; e soprattutto per i politici, che avevano nei precari costantemente ricattabili un tesoretto sempre ricco di voti.
Non solo Prima Repubblica
Questa, che sembra storia vecchia della Prima Repubblica, è ancora attualissima cronaca. In Calabria, infatti, gli Lsu e Lpu che lavorano nei Comuni sono un esercito di circa 4.500 persone. Dal 2014 la maggioranza di loro non prende più il sussidio, ma viene assunto con contratto a termine di un anno. Dunque sempre precari e ricattabili sono, anche se nelle intenzioni di Parlamento e Governo l’adozione dei rapporti di lavoro a termine doveva essere il primo passo verso l’assunzione a tempo indeterminato. Contestualmente, la riforma del pubblico impiego (legge Madia) che sotto Renzi ha riscritto le regole di questo settore, ha introdotto rigidi paletti per limitare il ricorso ai precari nella Pa, prevedendo un limite massimo di tre anni di contratti a termine. Soglia che con il recente Decreto dignità è scesa a 24 mesi. Se si oltrepassa questo limite, il lavoratore che viene nuovamente assunto a tempo può fare causa e vincere. È questa la spada di Damocle che pende sui Comuni, che si ritrovano davanti altri due ostacoli insormontabili, lo spazio nella dotazione organica dell’Ente e quello dei turn over, per il quale non possono spendere per nuovo personale di più di quanto risparmiano per chi è andato in pensione. In altre parole, se un Comune ha per ipotesi 30 Lsu da stabilizzare, ma in pensione sono andati solo 10 dipendenti, 20 precari sono destinati a restare a casa. Infine, non c’è certezza neanche sulle risorse necessarie per rinnovare i contratti, che - in base a quanto deciso dal Parlamento nel 2015 proprio per procedere alle stabilizzazioni - dovrebbero essere integrate da uno stanziamento annuale nella legge di Bilancio dello Stato di 50 milioni di euro dei quali, per ora, non si ha notizia.
I soldi non bastano
A battere cassa è stato lo stesso presidente della Regione Mario Oliverio, che insieme all’onorevole Bruno Bossio ha cavalcato a rotta di collo lo stesso cavallo di battaglia della stabilizzazione. Recentemente, infatti, insieme all’assessore al Lavoro, Angela Robbe, ha scritto a tre ministri (giusto per non sbagliare) chiedendo garanzie sullo stanziamento. Ma non sono i soldi che preoccupano i sindaci calabresi, consapevoli che quelli si trovano sempre quando c’è la volontà politica di farlo. A turbare i primi cittadini sono soprattutto gli impedimenti di legge accennati prima. Tanto che Anci Calabria proprio ieri ha definito “impossibile” la stipula dei nuovi contratti se non arrivano deroghe e aggiustamenti legislativi. «Questa volta - ha detto Gianluca Callipo, presidente dell’associazione che riunisce i Comuni calabresi - non sarà più possibile continuare a fidarsi di parole che non trovano conferme in atti». Ecco, il “caso di scuola” è servito.
Enrico De Girolamo