Che fine faranno i soldi che l’Europa invierà all’Italia nell’ambito del Pnrr? Se lo è chiesto Pino Aprile, direttore di LaC news24 nel corso della trasmissione “Piano nazionale di ripartenza e resilienza. Scippo al sud”, giunto già al suo secondo appuntamento. Dopo aver elencato le ragioni economiche e politiche del fatto che l'Europa privilegi l'Italia nella distribuzione delle risorse, in studio si cercherà di capire se i criteri di queste indicazioni europee siano stati raccolti o non raccolti nel progetto nel Pnrr stilato dal governo Conte.

Per scavare in fondo al Pnrr, Aprile si è fatto coadiuvare dal professore Gianfranco Viesti, uno dei più grandi meridionalisti contemporanei e docente di Economia applicata all'Università di Bari, e invece dal giornalista Luca Antonio Pepe, uno dei più esperti in Italia su queste tematiche.

Pnrr senz’anima

Il professore Viesti non ha dubbi quando afferma che il pregio del Piano è stato che sono state finalmente trovate le risorse per una serie di interventi che da tempo erano ritenuti necessari, ma il difetto è stato quello di aver fatto venire fuori «un piano un po' senz'anima, cioè un piano che non mirasse, e che non mira tutt'ora, a una trasformazione radicale dell'economia e della società italiana, ma una modernizzazione di alcuni dei suoi elementi». È con questo piano, rimarca Viesti, che bisogna convivere nei prossimi cinque anni.

Il docente di Economia applicata ha spiegato come in arrivo ci siano la bellezza di 750 miliardi di euro distribuiti agli Stati membri in parte sotto forma di prestiti, in parte sotto forma di vere e proprie donazioni. L’aspetto importante di questo piano è che la ripartizione non è pro capite ma è influenzata dalle difficoltà che i diversi paesi hanno avuto a causa del covid-19, o hanno ereditato dagli anni precedenti sotto forma di disoccupazione e di crescita stentata. In questo scenario l'Italia è il principale beneficiario del Piano seguita dalla Spagna.

La Commissione Europea - ha spiegato Viesti - sta cercando un obiettivo ambizioso, cioè contemporaneamente di rilanciare l'economia e l'occupazione ma anche di trasformarle, favorendo da un lato la transizione digitale, cioè la diffusione delle nuove tecnologie nell'economia e nella società, e dall’altro la transizione verde, la transizione energetica per ridurre le emissioni e favorire le energie alternative.

In base a questi paletti all'epoca - autunno 2020 - il governo Conte 2 si è trovato a dover programmare queste risorse. «Non è stato facile perché nella storia italiana degli ultimi anni la capacità di programmazione del settore pubblico si era molto ridotta: erano molto prevalenti le idee che bisognasse tagliare l'intervento pubblico molto più che programmare le risorse disponibili. In pratica il nostro paese disponeva e dispone solo una parte di quelle programmazioni di lungo termine, su trasporti o ancor più sull'istruzione, che sarebbero state necessarie per incanalare queste risorse verso grandi obiettivi di fondo. È successo che il governo Conte 2 ha fatto un lavoro additivo cioè ha sommato tutta una serie di progetti disponibili presso i ministeri - il Piano stato molto centralizzato a Roma - per mettere insieme una cifra totale corrispondente alle risorse».

I criteri cardine… traditi

Per far ripartire il continente economicamente l’Europa ha deciso di assegnare le risorse con criteri uguali per tutti gli Stati membri. Un aspetto importante per Aprile, perché se l’Unione europea fissa dei criteri è perché siano incontestabili agli occhi di tutti. Li si ritrovano nel documento firmato dalla Commissione europea il 28 maggio del 2020: “tali importi saranno calcolati in base alla popolazione all'inverso del prodotto interno lordo pro capite al relativo tasso di disoccupazione di ciascuno Stato membro”. In altre parole, ha sottolineato Aprile, significa che andranno tanti più soldi a chi ha un guadagno più basso per un maggior numero di disoccupati.

La cifra che arriva nelle casse italiche si aggira attorno ai 196 miliardi e, fa notare Pepe, è l’importo più alto fra tutti gli Stati membri dell’Ue. Ma se l’Italia è il Paese che riceve più soldi a fondo perduto, è anche quello che si indebita più di tutti gli altri: quasi 130 miliardi.

Queste risorse arrivano per un motivo semplice: perché noi abbiamo il Mezzogiorno che è la più vasta area europea che l’area del continente che ha il reddito più basso e la più alta disoccupazione.

Ed è proprio qui, per Aprile, che si cela la trappola di una Italia divisa a metà in riferimento ai redditi: «Cosa comporta? Che dall'Europa arrivano soldi per il mezzogiorno ma questi soldi migrano nella parte ricca dell'Italia. Ma per sintetizzare il criterio europeo, i soldi arrivano di più dove c'è di meno, perché quel di meno venga eliminato».

A sostenere la tesi ci sono anche i parlamentari, tanto di maggioranza che di opposizione, che hanno fatto anche una battaglia sulla destinazione di almeno 34% di quelle risorse. Eppure nella relazione delle Commissioni parlamentari del Senato che si sono occupate della questione si dice chiaramente che la clausola del 34% non appare sufficiente a operare l’atteso equilibrio del Mezzogiorno. Ed ancora più esplicita è la relazione dei deputati che scrivono come sia auspicabile destinare al Mezzogiorno risorse in misura anche maggiore rispetto alla clausola del 34%.

Quali obiettivi, e quante risorse?

Molti parlamentari, in maniera bipartisan, si sono lamentati dell’incompletezza delle informazioni e suddivisione delle risorse al Mezzogiorno. Domandandosi, insomma, qual è la destinazione effettiva di queste risorse. Perché al continuo richiamo alle condizioni del Sud non è corrisposta la dovuta chiarezza della spesa. Un paradosso messo in risalto anche dalla Corte dei Conti che nelle audizioni alla Camera ha sottolineato come “in questo momento non è possibile una valutazione della rispondenza agli obiettivi e alle sfide trasversali che sono poste con il Piano”.

In più gli esperti della Banca d’Italia intervenuti in Parlamento per dire la loro hanno certificato che “non è ancora quantificabile l’ammontare complessivo di risorse che saranno destinate alle regioni meridionali”.

In studio viene citato anche Carlo Cottarelli, non conosciuto proprio come un acceso meridionalista, secondo il quale “non sono stati ben definiti gli obiettivi quantitativi degli interventi che si intendono raggiungere e le tempistiche entro cui realizzarli”.

La domanda nasce quindi spontanea: Ma al Sud quanti soldi arriveranno? La risposta di Aprile è emblematica quanto scontata: boh?

In una delle prime bozze del Piano nel dicembre del 2020 a pagina 117 si scriveva: “Per quanto riguarda la quota del Pnrr afferenti alle Regioni del Sud si è applicata l’ipotesi che ad esse sia destinato il 34% dei fondi additivi”. In altre parole, per Aprile, le risorse si riducono quasi della metà rispetto a quelle previste dall’Europa.

Pepe, dal canto suo, ha fatto notare che la mancata applicazione della clausola del 34% (il criterio territoriale) tra il 2000 e il 2017 ha sottratto al Sud qualcosa come 840 miliardi, pari a più di 45 milioni di euro all’anno. Una circostanza sottolineata anche nel Relazione del 2020 dell’Eurispes. Si tratta di una somma superiore all’intero importo che l’Europa sta destinando a tutti i paesi membri. Ma il trend negativo ai danni del Mezzogiorno purtroppo è continuato anche dopo il 2017.

Nelle versioni successive del Piano il criterio del 34% è stato eliminato. Ma se prima non si sapeva la percentuale, e dopo non si sapeva il totale, oggi non si sa ancora né la percentuale né il totale. Caduto il governo Conte, si è insediato Mario Draghi, e la vicenda è ripartita da zero.