La presidenza Cossiga fu controversa. La si potrebbe dividere in due parti. Una parte sostanzialmente di routine e l’ultima parte quasi eversiva. Eletto nel segno di un’esigenza di normalizzazione del ruolo del Quirinale dopo le fibrillazioni dell’«era Pertini», Cossiga per molto tempo si attiene con scrupolo al mandato ricevuto. Si muove con discrezione, parla poco, evita prese di posizione che possano essere interpretate come una sconfessione o una censura del sistema dei partiti.

Dice di sé: «Sono un presidente in punta di piedi perché in questa carica occorrono soprattutto prudenza, moderazione e buonsenso». Appare, insomma, il meno «pertiniano» possibile e conferisce alla sua presidenza un’impronta riflessiva e pacata. Questo non significa che egli si limiti alle funzioni puramente rappresentative di un presidente notaio. Si occupa e preoccupa del funzionamento della macchina istituzionale, cerca di conservare quell’immagine di dignità che l’istituto presidenziale aveva recuperato con il suo predecessore e non manca di intervenire quando non ne può fare a meno. Pochi mesi dopo l’elezione, si scontra duramente con il Csm, deciso a censurare le critiche dell’allora presidente del Consiglio, Craxi, ai giudici del «processo Tobagi».

Cossiga dichiara inammissibile la mozione dei membri togati del Csm, suscitando la protesta dell’intero Consiglio. Insomma, la cosiddetta «fase uno» del settennato cossighiano marcia secondo gli schemi previsti per circa un lustro. Senza sorprese o invasioni di campo. I tradizionali messaggi di Capodanno sono molto formali, ampollosi e – qualcuno dirà – anche noiosi, e non manca chi ironizza su questo lungo silenzio (nascerà la definizione del «sardo muto»). Cossiga ama divise, bandiere e in genere cose militari. I sotterranei del cortile d’onore del Quirinale vengono trasformati in una «sala situazioni» dove egli spesso trascorre le nottate insonni. Altra sua passione è il baracchino per radio-amatori, con cui mantiene contatti con mezzo mondo.

Sembrano diversivi creati apposta per evitare altri interventi più impegnativi. È geloso delle sue prerogative di comandante supremo delle Forze armate. Solleva con Craxi l’interrogativo costituzionale su chi debba comandarle in caso di guerra, nel 1986, e due anni dopo accetta le conclusioni della Commissione Paladin secondo cui tale responsabilità esecutiva compete al capo del governo, mentre il capo dello Stato è garante. Viaggerà molto nell’arco del settennato: dalla Germania al Canada, dall’Australia all’Africa, dall’America alla Russia, con tappe periodiche nell’amata Irlanda. Ma di quei viaggi non resterà una forte traccia.

Tutto cambia con la caduta del muro di Berlino, Cossiga intuisce che è finito un mondo, un ciclo storico e che le conseguenze di quella mutazione ben presto avrebbero avuto ripercussioni negli equilibri della politica interna. «Anche per noi ci deve essere una nuova stagione di libertà, anche noi abbiamo bisogno del vento della libertà», spiega Cossiga, «ciò significa impegnarsi con totale coerenza a rendere più moderne ed adeguate le strutture del nostro Stato». Parole che assumeranno contorni più precisi e pregnanti di lì a poco: a gennaio, durante una visita in Francia, il presidente parla a braccio sul ruolo dei magistrati e sulla lentezza delle riforme. Promette: «Sarò in strada, dove c’è la gente. Per parlare con la gente e possibilmente rappresentarla e tutelarla».

È un approccio inedito. Comincia a prendere corpo la metamorfosi cossighiana, che compie un altro passo significativo con un intervento a Edimburgo, quando sottolinea l’urgenza di ampliare l’ambito democratico e spiega che «anche in Italia è caduto un muro, ora l’alternanza diventa possibile. Guardo con interesse e gioia a quell’unità nazionale che dolorosamente, in questi anni di guerra fredda, è stata separata da una cortina invisibile».

Il ragionamento diventa sempre più chiaro. Nel pensiero di Cossiga il crollo del Muro, con la fine dei regimi dell’Est europeo, avrebbe dovuto condurre rapidamente alla fine della cosiddetta «guerra fredda interna», cioè all’abolizione della conventio ad excludendum verso i comunisti, quel «fattore K» che aveva condizionato tutta la politica italiana del secondo dopoguerra costringendo gli italiani «ad un’alternanza di governo senza alternative di governo», ma anche alla fine del consociativismo (per cui il Pci doveva essere risarcito in qualche modo per la sua «condanna» all’opposizione) e della convinzione che, nel nome della logica di Yalta, fosse consentita qualsiasi pratica immorale a livello politico.

Serviva, insomma, una rigenerazione istituzionale, una stagione di riforme, un secondo tempo per la Repubblica che egli stesso avrebbe contribuito a determinare. Magari con una riconferma alla scadenza del mandato. Certo, l’impatto di queste idee da parte di uno statista che fino ad allora era stato uno scrupoloso e discreto garante dell’ordine costituzionale, in un’interpretazione – per così dire – riduttiva dei poteri presidenziali non poteva non suscitare stupore, disagio e diffidenza nei principali partiti e soprattutto nel gruppo dirigente del «suo» partito, la Democrazia cristiana. La situazione precipita irrimediabilmente quando scoppia il caso Gladio.

La vicenda viene fuori dalle rivelazioni sull’organizzazione segreta della Nato, denominata «Stay Behind», struttura parallela dei servizi, alla quale lo stesso Cossiga dichiara di appartenere. La struttura era uno dei tanti strumenti segreti di contrasto ad una eventuale espansione dell’Unione Sovietica durante il periodo della guerra fredda. Cossiga cerca di correre ai ripari per placare i dirigenti comunisti. Li contatta personalmente, dicendosi disponibile a fornire ampie spiegazioni sul suo ruolo. Ma la manovra non riesce.

La reazione delle sinistre (non solo del Pci) è durissima. C’è chi chiede le dimissioni di Cossiga, e chi chiede sia messo in stato di accusa per alto tradimento. Achille Occhetto avanza dubbi sull’«affidabilità» del capo dello Stato e utilizza questo caso per cercare di spingere il partito all’offensiva dopo lo smacco subito con il crollo del comunismo e – secondo Cossiga – per prevenire altre rivelazioni che potevano riguardare i finanziamenti segreti del Cremlino al Pci e la cosiddetta «Gladio rossa». Insomma: un fuoco di sbarramento per coprirsi preventivamente le spalle.

Anche i rapporti tra Colle e governo precipitano rapidamente, poiché la decisione di Andreotti di procedere all’immediato scioglimento di «Gladio» e alla nomina di una commissione di «saggi» (proposta successivamente ritirata dal governo) viene interpretata da Cossiga come una sconfessione delle sue dichiarazioni sulla legittimità dell’organizzazione. Segue la minaccia di «autosospendersi» dalla carica di capo dello Stato, che induce lo stesso Andreotti – come si è detto – ad una parziale marcia indietro. Ma ormai è calato il gelo tra il Quirinale e il governo; e ben presto lo scontro si allarga ai principali partiti. Cossiga si sente isolato, accerchiato. Si convince di essere vittima di un «complotto» orchestrato dal Pci-Pds – cui non è estranea la Dc – che mira a indurlo alle dimissioni come vittima sacrificale, come è accaduto nel 1978 con Giovanni Leone.

Insomma gli ultimi due anni della presidenza Cossiga furono convulsi ai quali si aggiunsero gli anni di tangentopoli e la fine della prima repubblica. Cossiga ad un certo punto diventa il picconatore del vecchio ordine polemizzando con tutti. Anche con Craxi la polemica fu feroce, denunciando preventivamente la deriva affaristica del partito socialista craxiano. Il sistema dei partiti è disorientato. Tentano anche di farlo passare per pazzo. Gli avversari vengono etichettati con definizioni ironiche, sovente dispregiative.

De Mita diventa il «Lepido di Nusco», Violante «il piccolo Viscinski» (inquisitore dei processi staliniani), Stefano Rodotà «un piccolo arrampicatore sociale», il giudice Casson «l’efebo di Venezia». E via dicendo. Di nessuno si pentirà tranne che di due: quello affibbiato ad Achille Occhetto, «lo zombie con i baffi», e soprattutto quel «giudice ragazzino» attribuito a Rosario Livatino, poi assassinato dalla mafia. Cossiga si autodenuncia di cospirazione.

Il Pds chiede l’impeachment. Lui si dimette dalla Dc con l’accusa che non è stato difeso. il 25 aprile 1992 – nel giorno della Liberazione e due giorni dopo l’inizio della nuova legislatura – lascia il Quirinale, con dieci settimane d’anticipo rispetto alla scadenza del mandato. Chiede di essere ascoltato dal tribunale dei ministri sull’impeachment, ma ormai è superfluo. L’indagine sarà archiviata dalla magistratura. L’annuncio delle dimissioni viene dato con clamore, a reti unificate, per dare l’ennesima sferzata al paese.

Auspica l’elezione di un «presidente forte», in grado di promuovere «un autentico cambiamento». Cossiga esce di scena quando la tempesta di Tangentopoli ha già mostrato i primi bagliori con l’arresto di Mario Chiesa, che apre il coperchio su un giro di corruzione in cui sono coinvolti i partiti politici, destinato a sfociare nel più grave scandalo della Repubblica. D’altra parte, le elezioni della primavera hanno fatto registrare un primo terremoto, con un forte arretramento dei partiti tradizionali e l’ascesa sullo scenario politico della Lega di Bossi.

Dal Portogallo, Cossiga, nei panni di Cassandra, pronuncia l’estrema requisitoria contro il suo ex partito: «La Dc è da lapidare. I dirigenti Dc, la gente li prenderà a sassate per le strade. Io non li ho buttati giù per le scale, ma la gente non avrà i miei scrupoli». Si conclude così – con l’agonia della Prima Repubblica sotto i colpi di Tangentopoli e le inchieste a tappeto del pool di «Mani pulite» – il settennato cossighiano, che pure era cominciato nel segno della prudenza e della moderazione.

Le bombe di Capaci fanno salire al colle Scalfaro

L’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, il 25 maggio 1992, riporta alla memoria la fiducia immediatamente votata dalle due Camere al quarto governo Andreotti nel marzo 1978. Ambedue le votazioni ebbero luogo sotto la spinta dell’emergenza: quella creata dal rapimento di Aldo Moro, nel caso del governo Andreotti, e l’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, in quello della designazione di Scalfaro.

Gli scrutini per l’elezione presidenziale si stavano svolgendo già dal 13 maggio, senza speranza di una rapida conclusione: in lizza per la maggioranza si trovavano Arnaldo Forlani, Giuliano Vassalli, Leo Valiani e in prospettiva Giulio Andreotti, ma nessuno sembrava in grado di raggiungere il quorum. Forlani, che al sesto scrutinio aveva ricevuto 496 voti, non riuscì a raccogliere la manciata di suffragi che ancora lo separavano dall’elezione, per cui ne erano richiesti 508; pertanto si ritirò e per l’occasione diede anche le dimissioni da segretario della Dc, una carica sempre più scomoda.

Davanti allo stallo emergevano le candidature definibili come istituzionali: quelle del presidente del Senato, Giovanni Spadolini, e del presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro. Il 23 maggio arrivò la notizia della strage di Capaci e due giorni dopo i voti di Dc, Pds, Psi, Psdi e Pli più quelli dei Verdi e della «lista Pannella» si concentrarono su Scalfaro, che raggiunse quota 672 su un totale di 1002. Indro Montanelli ebbe a scrivere che «Scalfaro era stato issato al Quirinale dai mille chili di tritolo su cui era saltato Falcone, piuttosto che dai mille grandi elettori».

Rivolto ai suoi, Craxi aveva detto di Scalfaro: «L’ho avuto nel mio governo, è una persona di cui ci si può fidare». Da parte del segretario socialista, in quelle settimane candidato alla presidenza del Consiglio, poteva apparire una captatio benevolentiae. Poi Scalfaro non darà l’incarico a Craxi, ma sceglierà il suo «delfino» Giuliano Amato. Il leader del Psi non aveva ancora ricevuto alcun avviso di garanzia, ma l’arresto alla frontiera di Ventimiglia di Silvano Larini, suo alter ego negli «affari speciali» del partito, suggeriva che il temuto avviso poteva essere solo questione di tempo, e infatti Craxi ne riceverà il primo di una serie qualche mese più tardi.

In effetti la figura di Scalfaro era considerata anomala nel panorama democristiano. Discendente da una famiglia di baroni calabresi, creati da Gioacchino Murat (sarà il secondo presidente della Repubblica di origini nobiliari dopo Antonio Segni), entrò in magistratura nel ’43 e vi restò fino al ’46, quando, dimessosi, iniziò la carriera politica. Scalfaro era entrato a far parte delle Corti d’Assise straordinarie, create per giudicare i crimini commessi in tempo di guerra e per i quali, nei casi più efferati, era prevista la pena di morte.

Di quell’esperienza spicca l’episodio di una condanna a morte richiesta e ottenuta da Scalfaro come pubblico ministero per il repubblichino Salvatore Zurlo che, tuttavia, dietro suggerimento dello stesso Scalfaro fece appello in Cassazione e si vide commutare la pena in trent’anni di carcere, ridotti poi a sei dall’amnistia concessa da Togliatti, ministro della Giustizia del primo governo De Gasperi. Da quell’episodio Scalfaro rimase profondamente colpito. Sulle ragioni che lo indussero a lasciare la toga per entrare in politica il suo ricordo è molto nitido. Fu una decisione sofferta.

Grazie allo stretto rapporto con l’Azione cattolica, di cui resterà membro – orgoglioso di esserlo – fino all’elezione presidenziale, fu eletto all’Assemblea costituente (dove, tra l’altro, si batté perché fosse eliminata la pena di morte) e poi deputato Dc ad ogni legislatura fino al 1992, sempre con un altissimo numero di preferenze. Molto vicino a Mario Scelba, del cui governo sarà sottosegretario alla presidenza del Consiglio e sottosegretario in vari dicasteri nei governi successivi, diventerà ministro dei Trasporti e dell’Aviazione civile nel 1966, prima nel terzo governo Moro e successivamente nel secondo governo Leone (1968) e nel primo governo Andreotti (1972), per passare alla Pubblica istruzione nel secondo.

Nell’agosto del 1983 fu chiamato da Craxi a ricoprire la delicata carica di ministro degli Interni, dove rimase fino al 1987. Il 24 aprile 1992 fu eletto alla presidenza della Camera dei deputati, dove per la sopravvenuta elezione alla presidenza della Repubblica rimase appena un mese e due giorni. È il curriculum di un uomo di prestigio e di successi, ma non di un leader. Sempre schierato su posizioni anticomuniste, amico e ammiratore di Scelba, farà parte della sua corrente di Centrismo popolare per vari anni. Dopo l’eclisse dell’esponente centrista, Scalfaro formerà una sua corrente, Forze Libere: era il tentativo di fare il salto che poteva portarlo al livello dei maggiori notabili.

L’operazione non riuscì. All’XI Congresso del partito, che segnò il definitivo distacco di Moro dalla corrente dorotea, il gruppo creato da Scalfaro raggiungeva appena il 2,9% e quattro seggi in Consiglio nazionale. Quattro anni dopo la corrente si scioglie; il compromesso storico è alle porte e non c’è più spazio per posizioni di destra. Dal 1972 al 1983 Scalfaro ricoprirà la carica di vicepresidente della Camera, restando escluso da incarichi governativi.

Poteva essere la conclusione dignitosa di una lunga carriera politica. A rimetterlo in corsa, suscitando la sorpresa di molti, arriverà la chiamata di Craxi e l’incarico al ministero degli Interni, che Scalfaro svolgerà con rigore ed efficienza, ma che da presidente della Repubblica lo porrà al centro di una pericolosa querelle. I rapporti con Craxi sono sempre stati corretti. «Ho avuto per lui sempre il massimo rispetto – sottolinea Scalfaro, ricordando la lunga collaborazione –; ho detto più di una volta che non tutti i suoi globuli rossi sembravano democratici, ma era dotato di un fiuto politico straordinario. Non condivisi la sua decisione di lasciare l’Italia per i processi di Tangentopoli. Forse è stato mal consigliato. Nessuno di chi gli stava accanto aveva la sua statura e le sue intuizioni».

Rigore e indipendenza di giudizio Scalfaro li dimostrò, per riconoscimento unanime, anche come presidente della commissione d’inchiesta sulla ricostruzione dell’Irpinia dopo il terremoto del 1980, commissione che scoprì più di uno scheletro nell’armadio dei capi demitiani del Beneventano. A proiettarlo alla suprema carica dello Stato, a cui avevano aspirato inutilmente autentici «cavalli di razza» come Fanfani e Andreotti, sarà la sorte, ma anche la grande coerenza e onestà intellettuale.

In qualsiasi stagione politica Scalfaro aveva professato un anticomunismo senza compromessi e una costante ostilità nei confronti del centro-sinistra, sia alle origini della nuova maggioranza sia, più ancora, nel corso degli anni Settanta, quando i socialisti di De Martino adottarono la linea degli «equilibri più avanzati», che sembrava confermare le accuse che Scalfaro aveva da sempre mosso ai socialisti, e cioè di utilizzare la coalizione di centro-sinistra come cavallo di Troia per l’ingresso del Pci nel palazzo.

Né gli nocque una fama di bigottismo che risaliva ad un famoso episodio del luglio 1950, noto come «il caso del prendisole», quando in un ristorante romano redarguì una elegante signora che esibiva un décolleté da lui ritenuto eccessivo e sconveniente. Scalfaro entrava al Quirinale in uno dei momenti più difficili della storia del paese: si concludeva in modo disastroso la Prima Repubblica e si apriva al buio e senza prospettive l’epoca della seconda.

Nel discorso d’insediamento, ricco di richiami alla sua matrice cattolica e democristiana, ma anche al suo ruolo super partes, Scalfaro non manca di manifestare le preoccupazioni per la situazione nonché di elencare i temi da affrontare: «Grandi problemi incombono: la riforma istituzionale, la riforma elettorale, le questioni inerenti al grave disavanzo del bilancio dello Stato, la criminalità aggressiva e sanguinaria, il traffico di droghe e di armi, la delicata questione morale».
Pasquale Motta