In principio fu Silvio Berlusconi che, nella sua lunga carriera politica, ingaggiò una lotta al calor bianco con i “giudici comunisti” che raggiunse lo zenit con l’avviso di garanzia che il Cavaliere ricevette mentre da Presidente del Consiglio presiedeva il G7 di Napoli.

Da allora il rapporto fra politica e magistratura in Italia è sempre stato teso ed è sempre più difficile che un politico pensi alle dimissioni nel caso in cui incappi in qualche guaio giudiziario. Gli viene più facile piuttosto grida al complotto. Quanto sia vero quello che stiamo dicendo è ancora più evidente leggendo le cronache di questi giorni.

A partire dal “me ne frego” del Ministro al Turismo Daniela Santachè che rinviata a giudizio con l'accusa di concorso in falso in bilancio ed indagata per bancarotta fraudolenta di una delle sue società, alle dimissioni non ci pensa proprio.

Stessa linea quella della sua compagna di partito ovvero della premier Giorgia Meloni che di fronte a quello che lei stessa ha definito avviso di garanzia per lei e i ministri Nordio e Piantedosi e al sottosegretario Mantovano registra un video che prima circola sui social e poi in vari tg per sfidare i pm dicendo a chiare lettere che non si lascia intimidire. Poco importa che in realtà non si tratti di un avviso di garanzia, ma di una semplice comunicazione di iscrizione al registro degli indagati. Sofismi giuridici per la Meloni che non fanno alcuna differenza sul piano politico.

La premier collega la comunicazione ricevuta alla riforma della giustizia che si sta discutendo in Parlamento e in particolare all’ipotesi della separazione delle carriere che tanto cara fu proprio a Berlusconi. È il secondo atto del patto di governo che prevedeva l’autonomia differenziata per la Lega, la riforma della giustizia per Forza Italia e il premierato per Fratelli d’Italia.

Viste le circostanze, però, i meloniani sono pronti a fare della separazione delle carriere una bandiera. Una circostanza che serve a inquinare un dibattito già avvelenato come quello della riforma della giustizia, condizionato da una eccessiva attenzione sul penale e una scarsa, per non dire nulla, sul processo civile che invece di riforme avrebbe bisogno eccome.

Di fronte agli avvisi di garanzia in luogo di affermazioni contenute di fiducia nella magistratura e della certezza di chiarire ogni aspetto, si preferisce l’attacco. Il risultato è un clima molto lontano da quello del passato. Non vogliamo andare troppo indietro nel tempo quando l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise con sei mesi d’anticipo rispetto alla scadenza del suo mandato perché sfiorato dall’indagine Lockheed da cui poi uscì assolto.

Che dire poi di Giulio Andreotti, uno a cui l’ironia di certo non difettava e che diceva che a parte le guerre puniche era stato accusato di tutto. Eppure seguì i suoi processi via senza mai pronunciare una parola, senza mai fare un’accusa alla magistratura, assistendo a tutte le sedute a Palermo e accettando sempre le sentenze, sia quando erano positive ovviamente sia quando lasciarono aperti molti dubbi sulla sua storia politica.

Ma anche recentemente Maurizio Lupi nel marzo 2015 da titolare delle Infrastrutture, si dimise, sebbene non indagato, perché il suo nome era emerso negli atti di un’inchiesta della procura di Firenze su un giro di tangenti negli appalti pubblici, insieme a tracce di presunte regalie di un arrestato al figlio del ministro.

Stessa scelta fece la campionessa olimpica Josefa Idem, dimessasi dal dicastero dello Sport, dopo l’uscita di articoli sul mancato pagamento dell’Ici su un’abitazione. Ancora più lieve era la posizione dell’ex ministro allo Sviluppo Economico, Francesca Guidi che si dimise. La ministra era stata intercettata mentre, al telefono con il suo compagno, si impegnava a garantire un emendamento alla legge di Stabilità favorevole agli interessi economici privati del suo interlocutore, nel campo delle estrazioni petrolifere.

Discorso a parte meriterebbe poi il periodo di Tangentopoli quando praticamente finì sotto inchiesta tutto il gotha della politica italiana. Anche lì la reazione spesso fu quella delle semplici dimissioni, per avere la serenità di affrontare il processo. Nessuno si scagliò apertamente contro la magistratura, persino Bettino Craxi che si limitò a considerazioni di carattere politico sostenendo che il sistema delle tangenti era diffuso dappertutto e da tutti conosciuto per sostenere i costi della politica.

Oggi invece si intersecano questioni politiche e vicende giudiziarie e il risultato è che il Presidente del Consiglio di fronte ad una comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, che teoricamente è un atto a tutela dell’indagato, decide di contrattaccare parlando di complotto politico.