Il segretario che non ti aspetti. Ernesto Magorno ha deciso di rendere omaggio ai suoi quattro anni alla guida del Pd, agli iscritti che lo hanno eletto e all’intera comunità democratica calabrese con una relazione non di maniera. Avrebbe potuto scegliere il politichese, come spesso ha fatto, oppure minimizzare le proprie responsabilità e prendersela con la crisi globale delle sinistre, allontanarsi da Renzi che in questo momento è perdente. Invece no. Ha scelto la via del linguaggio semplice, dell’assunzione di responsabilità, mettendo dentro alle diverse cartelle del suo discorso anche l’origine della sua passione politica e l’esempio ricevuto dai genitori. E la coerenza di chi rimane dalla stessa parte anche quando si perde.

 

«Io, come è giusto che sia, da subito, con umiltà e senza difese né maschere, mi sono assunto le responsabilità della sconfitta, del risultato catastrofico in Calabria dove il nostro partito raggiunge il 14,32 % alla Camera e il 14,53% al Senato. L’ho detto a Pianopoli e lo ridico qui: è colpa mia se abbiamo perso a Cosenza, a Vibo, a Crotone, a Catanzaro e non ho alcun merito se la Regione è a guida Pd e se molte amministrazioni oggi sono affidate a sindaci del Pd! Ma dove sono e cosa dicono gli altri, a cominciare da chi rappresenta il Pd nelle istituzioni, da chi ha avuto incarichi di governo e di partito ?». Di certo a Marco Minniti saranno fischiate le orecchie, così come a tutti quelli che si sono risparmiati durante l’ultima campagna elettorale per favorire la propria corrente, ma finendo per uccidere il partito.

 

Magorno ha poi sottolineato il fallimento dell’azione del governo nazionale nel Meridione e spronato Oliverio al famoso “cambio di passo”, anche se ha espresso un giudizio positivo sull’operato della giunta fin qui. La parte più interessante del discorso di Magorno, però, riguarda la ricostruzione della propria vicenda umana e personale. «Voglio ricordarvi che sono stato eletto segretario regionale il 23 febbraio 2014, dopo una lunga battaglia congressuale. E, ve lo assicuro, non è stato facile fare il segretario dopo quattro anni di commissariamento, un commissariamento che ha prodotto più macerie e distruzioni della bomba di Hiroshima». E poi la cruda verità: «sono stato un generale con uno stato maggiore che si ammutinava continuamente e su cui si sono abbattuti i giochi di potere di una classe politica, conservatrice e preoccupata di difendere lo “status quo”, che ha pensato solo ad alimentare divisioni interne, guerre di logoramento, battaglie di retroguardia e biechi tatticismi piuttosto di trovare unità e sintonia in un partito frammentato, litigioso e confuso in cui coesistevano e coesistono ancora nemici armati l'uno contro l'altro».

 

Una lotta senza quartiere che ha avuto effetti anche sulla sua vita privata. «Ho pagato un prezzo altissimo così come duramente l’hanno pagato   la mia famiglia , mia moglie, mia figlia. Ma da buon cristiano accetto e sopporto con pazienza ogni umiliazione: ho spalle grandi e robuste! E chi, con plateali operazioni mediatiche, credeva di fermarmi, di spaventarmi, di atterrarmi, non mi conosceva bene anzi non mi conosceva affatto! Ci hanno provato a demolirmi ma non ci sono riusciti!». Spalle larghe che derivano dalla formazione e dalle origini dell’impegno politico. «La mia storia politica nasce da lontano, ha radici ben salde e sane, quelle dei miei genitori che con il proprio lavoro, con l’impegno politico e sociale hanno dato tanto senza pretendere nulla in cambio. Da loro ho imparato, soprattutto, il valore del sacrificio, a non scoraggiarmi mai, a lottare, a credere nei miei sogni e a difenderli, agendo sempre nel rispetto delle regole e dell'altro. Ho scelto di servire i miei ideali da quando avevo 14 anni e sono cresciuto alla scuola di quella politica, pulita e vera, che incarna l’amore per la polis. Di quella politica che parte dal basso, fatta con dignità, coerenza e trasparenza, in una piccola sezione di partito come in piazza, per il popolo e con il popolo e non per pura ambizione o tornaconto personale».

 

Ancora un passaggio importante in questo tempo di comitati di interessi e di gruppi di pressione. «Non sono figlio e frutto delle lobby. Io vengo da un piccolo paese, vengo da una famiglia normale, non appartengo alle grandi e nobili famiglie della politica calabrese. Non ho mai ceduto al compromesso né mai mi sono inchinato di fronte al potere o alle richieste di chi vuole piegare la politica agli interessi economici e agli interessi particolari». Infine il messaggio che troppo spesso manca ai politici dell’italietta del compromesso. Di quelli che issano le vele a seconda di come soffia il vento. «Il caso ha voluto che incontrassi lungo il mio percorso Matteo Renzi e per scelta l’ho seguito, andando controcorrente, quando stare con Lui sembrava, ai più nel nostro partito, quasi commettere una eresia. Lo dico e lo rivendico: io sono orgoglioso di essere stato un renziano, di esserlo tuttora e di continuare a esserlo. Io non scappo, non abbandono la nave quando affonda: lo lascio fare ai topi».

Riccardo Tripepi