De Nicola era convinto di essere rieletto ma la situazione politica e una certa ostilità di De Gasperi favorirono il politico ed economista piemontese, che diventò Capo dello Stato nel maggio del 1948 e pure nel suo discorso d'insediamento non nascose le sue simpatie monarchiche (ASCOLTA L'AUDIO)
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Nel precedente pezzo sulla storia della elezione dei Presidenti della Repubblica vi abbiamo raccontato le fasi che hanno portato all’elezione del primo presidente della Repubblica (provvisorio) Enrico De Nicola. A De Nicola nel biennio della sua presidenza indubbiamente sono stati riconosciuti meriti importanti che hanno contribuito al consolidamento delle istituzioni nate dal dopo guerra. In molti immaginavano che sarebbe stato rieletto. Ma la fase della elezione del Presidente, è fortemente connessa con il contesto politico. De Nicola era stato un presidente formalista, e il suo ruolo lo aveva interpretato rimarcando la distanza dai partiti. Tale atteggiamento era arrivato ad irritare lo stesso Alcide De Gasperi, il quale stava costruendo il patto atlantico che avrebbe escluso le sinistre dalla partecipazione al governo.
Emblematico l’atteggiamento di De Nicola allorquando nel periodo pre-elettorale accentua la sua meticolosa imparzialità, anche a costo di acuire il conflitto con De Gasperi. Come accade, ad esempio, poco prima dello scontro elettorale del 18 aprile 1948, quando si rifiuta di firmare il testo di un telegramma di ringraziamento a Truman per gli aiuti del Piano Marshall, affermando che sarebbe apparso come un gesto di parte. I risultati delle elezioni segnarono il trionfo della politica filo atlantica di De Gasperi e la sconfitta del fronte popolare dei comunisti e socialisti. Forte dell’esito elettorale, De Gasperi non fa mistero con i suoi collaboratori di considerare esaurita la «fase De Nicola» e di puntare su un proprio candidato per il Quirinale: innanzitutto sul ministro degli Esteri, Carlo Sforza, gradito agli americani, ma che verrà bruciato nelle fasi successive.
De Nicola non avrebbe disdegnato la riconferma, anche se – com’era sua abitudine – faceva finta di non essere interessato. Nel momento cruciale sparisce dalla circolazione e si rinchiude in silenzio nel buen retiro di Torre del Greco in attesa degli sviluppi, accampando le solite ragioni di salute. Dopo una fase di schermaglie, De Gasperi esce allo scoperto e spiega a De Nicola che stavolta la Dc non voterà per un candidato appoggiato anche dalle sinistre. È un modo elegante per spingere De Nicola a farsi da parte, ma questi non appare assolutamente disposto a trarne le conseguenze. Anzi, proprio alla vigilia dell’elezione presidenziale si verifica il celebre episodio del trasferimento del letto presidenziale, legato all’iniziativa dell’iperattivo capo di gabinetto, l’avvocato Umberto Collamarini. Questi – dando per scontata la rielezione di De Nicola – ordina che sia trasferito un letto d’ottone gradito al futuro presidente in una camera del Quirinale. De Gasperi, venuto a sapere della cosa, accentua la sua ostilità nei confronti di un nuovo mandato a De Nicola, verso cui invece sono orientati i partiti di sinistra.
L’elezione di Einaudi
Nella fase iniziale dell’elezione si trovano a confronto Sforza e De Nicola, sostenuto dalle sinistre. Nei primi tre scrutini né l’uno né l’altro dei due candidati raggiunge i due terzi dei voti necessari. Alla terza votazione il fronte pro-Sforza si sfalda: votano contro i «franchi tiratori» della sinistra di Dossetti e La Pira nonché i socialdemocratici con i 49 voti del loro gruppo. Da questa e da altre bocciature che, secondo le informazioni che circolavano, si sarebbero concretizzate nelle votazioni successive, appare chiaro che la candidatura di Sforza è bruciata.
Allora era la volta di Einaudi, a cui tutti riconoscevano il merito del salvataggio della finanza e che nelle prime votazioni aveva ricevuto qualche decina di suffragi. Fine economista liberale Einaudi, era stato interpellato da De Gasperi affinché diventasse ministro del Bilancio del suo governo qualche giorno prima della sua elezione a Presidente. Einaudi, già governatore della Banca d’Italia, aveva posto delle rigorose condizioni per il contenimento della spesa pubblica. Nella lettera a De Gasperi del 29 aprile 1948 Einaudi iniziava così: «Alla cortese domanda: sei disposto in via di massima a continuare la tua collaborazione al Ministero rivoltami da te [...] io risposi ieri ‘in via di massima sì’». Ma dopo i ringraziamenti seguivano le condizioni a cui Einaudi avrebbe accettato la designazione: alla richiesta della «eliminazione immediata di tutta quella parte del disavanzo che deriva dai prezzi politici», seguiva quella ben più impegnativa per qualsiasi governo, «di non prendere provvedimenti che accrescano le spese pubbliche, in conto spese effettive e in conto movimenti capitali, al di là dei mezzi tributari e creditizi sicuramente disponibili allo scopo». Per non lasciare adito a dubbi sulla serietà delle sue proposte, Einaudi chiedeva il controllo quotidiano sulla spesa pubblica, fino ad allora esercitato dalla Ragioneria dello Stato e che sarebbe dovuto passare alle dirette dipendenze del ministro del Bilancio. E da li seguirono tutta un’altra serie di richieste che interessavano vari settori dello Stato fino a quella più pesante: nei «troppi enti economici e creditizi dipendenti dallo Stato» andava applicata la formula: «fuori i politici di qualunque razza e dentro i tecnici competenti». Non si sa come De Gasperi abbia accolto la lettera di Einaudi e se ne avrebbe accettato le condizioni – che, se applicate, avrebbero rivoluzionato il modo di far politica –, ma alcuni giorni dopo, l’11 maggio, Luigi Einaudi veniva eletto presidente della Repubblica.
Interpellato da Andreotti su mandato di De Gasperi, Einaudi aveva accettato di buon grado la candidatura, se pur con qualche perplessità derivante dalla sua condizione di claudicante, che l’uomo politico piemontese temeva avrebbe potuto rivelarsi un handicap nelle cerimonie pubbliche e soprattutto in quelle militari. Ma si trattava di scrupoli facilmente superabili, anche per il precedente del presidente americano Roosevelt, che aveva potuto svolgere egregiamente il proprio compito malgrado la menomazione fisica. Einaudi, diventato il candidato ufficiale della Dc, al quarto scrutinio veniva eletto con 518 voti su 872. Sarebbero state disposte a votarlo anche le sinistre social-comuniste e Togliatti aveva chiesto la sospensione dello scrutinio – probabilmente per poter negoziare il voto con la maggioranza –, ma aveva incontrato il netto rifiuto della Dc, che dopo la vittoria del 18 aprile non voleva il concorso delle sinistre nell’elezione del nuovo capo dello Stato. Comunisti e socialisti avevano votato allora per Vittorio Emanuele Orlando, l’uomo simbolo del vecchio Stato nazionale.
Una curiosità: Einaudi non faceva mistero delle sue simpatie monarchiche, le confesserà apertamente, nel suo discorso di insediamento alla presidenza, definendole «una opinione radicata nella tradizione e nei sentimenti». Per il professore piemontese si trattava più di nostalgie culturali e umane che di convinzioni ideologiche, e in ogni caso la Costituzione che egli sarà chiamato a difendere escludeva in modo categorico la possibilità di un ritorno al regime monarchico.