Il ruolo di Segni al Quirinale si caratterizzò sul solco della missione per la quale era stato eletto: fungere da contrappeso moderato al governo di centrosinistra composto dalla Dc e dai Socialisti. Anche se, c’è da sottolineare che sin dal momento dell’insediamento, questo distinto signore di 71 anni, dai capelli candidi e dai modi aristocratici, dal fisico fragile ma dal carattere ferreo, vuole dare un’impronta non di parte al proprio ruolo. Il campo in cui egli mostra di voler agire con particolare intensità è quello giuridico, anche per i suoi trascorsi di docente di Diritto. Non limita ad una funzione formale quella di presidente del Consiglio superiore della magistratura, ma introduce la prassi di suoi frequenti interventi diretti alle sedute del Csm. Distribuisce pareri, partecipa alle votazioni, suscitando non poco malumore tra i giudici, che non gradiscono quel controllo costante. Nei mesi successivi all’elezione di Segni il clima generale del paese tende a peggiorare. Nel corso di uno sciopero alla Fiat, il 7 luglio, scoppiano incidenti tra i lavoratori e la polizia, creati dall’intervento di «teppisti e provocatori», così definiti da Sergio Garavini, segretario provinciale della Cgil. Siamo alla vigilia dell’autunno caldo che prelude alla stagione dei movimenti che sfoceranno alla violenza e successivamente al terrorismo.

A Milano, nel corso di una manifestazione organizzata dall’estrema sinistra contro il blocco navale posto dagli Stati Uniti a Cuba, viene ucciso un giovane comunista, Giovanni Ardizzone. In quei giorni moriva anche Enrico Mattei, che si schiantava con il suo aereo a Bascapè, una zona della periferia milanese. Era generale la convinzione che si trattasse di un attentato, di cui tuttavia restava difficile individuare i mandanti, dati i molti nemici di Mattei.

Non era un mistero che Segni fosse decisamente contrario al centro-sinistra e si adoperasse ad annacquare la formula o addirittura abbandonarla; in occasione di un incontro con Nenni ai primi di luglio 1964 cercò di persuadere il leader socialista a soprassedere ai tentativi di costituire la nuova edizione del centro-sinistra, proprio mentre a Parigi il generale De Gaulle faceva fosche profezie sul futuro dell’Italia: «L’Italie – diceva – est à sa Quatrième» (cioè alla Quarta Repubblica).

Nell’esercizio dei suoi poteri costituzionali il presidente rinviò al Parlamento alcuni progetti di legge (saranno otto nei due anni e mezzo di mandato) per mancanza di copertura finanziaria. Inoltre contrastò numerose iniziative governative: dall’imposta cedolare d’acconto ai contratti agrari, dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica all’istituzione delle Regioni. Nell’ottobre 1963 un nuovo episodio di violenza in campo sindacale, la protesta dei lavoratori edili, degenerava improvvisamente, facendo ben 168 feriti tra il pubblico e la polizia intervenuta a disperdere la manifestazione. In seguito alla condanna di alcuni degli agitatori a pene variabili, mentre la stampa social-comunista protestava per l’eccessiva severità della magistratura, il presidente Segni manifestava la sua solidarietà ai giudici, e attraverso una presa di posizione del Consiglio superiore della magistratura criticava l’«Avanti!» e «l’Unità».

Il quadro politico è estremamente instabile. Segni è dilaniato dai dubbi sul mantenimento della formula del centrosinistra. Durante le consultazioni per la formazione dei due governi Moro, Segni manifesta le sue preoccupazioni per il mantenimento di un ordine pubblico che aveva cominciato a dare segni di instabilità e consulta alcuni esponenti delle forze armate e dei servizi segreti. Queste consultazioni furono oggetto di critiche e sospetti, e suscitarono tra la forze politiche non poco perplessità. Le preoccupazioni per la crisi economica (reale) e per un eventuale turbamento dell’ordine pubblico (ipotetico) diventavano sempre più pressanti e quasi ossessive per il presidente. Il clima, tuttavia è teso e tale tensione è avvertita anche dai leader politici del centrosinistra. Gli incontri del Presidente con vertici e militari e dei servizi si susseguono. Il presidente avrà un colloquio con il capo di Stato maggiore della Difesa, Aldo Rossi, e il 15 con il generale Giovanni De Lorenzo, che dal 1955 al 1962 era stato a capo del Sifar, il Servizio segreto militare. Dei due incontri il capo dello Stato fa dare pubblica notizia, attraverso un’insolita comunicazione in tv che suscita sorpresa e allarme. Successivamente, Segni telefona anche al generale Giuseppe Aloja, capo di Stato maggiore dell’Esercito. Anche Aloja, come già Rossi e lo stesso De Lorenzo, cerca di tranquillizzarlo e – secondo alcune testimonianze – De Lorenzo avrebbe detto a Segni che «la situazione è controllata e controllabile senza fare nulla, senza fare piani».

Il 22 luglio Moro forma il suo nuovo governo con Pietro Nenni, vicepresidente del Consiglio. Si tratta di un centro-sinistra edulcorato, di cui non fanno parte né esponenti della sinistra socialista (Riccardo Lombardi, leader della sinistra, darà le dimissioni dalla direzione del Psi), né membri della corrente fanfaniana. Le raccomandazioni, e le pressioni, del presidente hanno sortito i loro effetti. Nenni modera le richieste del partito per «quel tintinnio di sciabole» che più tardi dirà di avere avvertito in quei giorni. La crisi politica si risolve, ma la tensione resta alta. Il 7 agosto Antonio Segni – dopo un colloquio particolarmente acceso con Saragat e Moro al Quirinale – è colpito da una trombosi e quattro mesi dopo, il 6 dicembre 1964, è costretto a dimettersi per l’impossibilità di esercitare le sue funzioni.

Su quell’ultimo colloquio del Presidente con Moro e Saragat circola da sempre un alone di mistero. Saragat accusa Segni di aver tramato con i carabinieri. In preda all’ira, avrebbe esclamato: «So tutto di quel colloquio con De Lorenzo. Potrei mandarti davanti all’Alta Corte». Segni impallidisce, le parole diventano incerte e confuse. Perde i sensi, accorrono gli uscieri e i medici, che diagnosticano l’ictus. Peraltro, questa versione dell’alterco non sarà confermata né da Saragat né da Moro. Toccherà al segretario generale del Quirinale, Paolo Strano, attestare l’«impossibilità permanente» di Segni di adempiere le sue funzioni. Nominato senatore a vita, Antonio Segni morirà a Roma il 1° dicembre 1972, all’età di 81 anni. Per anni introno alla Presidenza segni sono circolate indiscrezioni, accuse, denunce di un suo coinvolgimento in un presunto colpo di Stato. Negli anni successivi, tra l’altro, il paese più volte è stato sfiorato da soluzioni alla cilena. Proprio il generale De Lorenzo fu accusato di tentato golpe. Il 14 maggio del 1967 il settimanale «l’Espresso» iniziava una serie di rivelazioni sul «complotto al Quirinale del 14 luglio 1964»: Segni e il generale De Lorenzo, secondo i due estensori dell’articolo, Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, avrebbero preparato un colpo di Stato. Tra il maggio e l’ottobre, in una serie di corrispondenze il settimanale rivelava «La verità sul Sifar», il servizio segreto di informazioni militari. Dalle consultazioni tra il presidente Segni e i capi militari, avvenute in margine alla formazione del primo – ma soprattutto del secondo – governo Moro, nascevano le accuse di un golpe programmato, se non tentato. Lo scandalo del Sifar era solo la prima di una serie di denunce giornalistiche su ipotetici colpi di Stato che testimoniano del clima di tensione che stava crescendo nel paese.

La dura battaglia di Saragat per il colle

Se l’elezione di Segni doveva servire da contrappeso delle forze moderate rispetto alla nascente stagione del centrosinistra. La successione a Segni doveva dare un segnale di segno opposto. Occorreva una personalità che fosse garante di quella stagione. Giuseppe Saragat sembrava l’uomo giusto per quella fase. La sua storia politica nel contesto del socialismo riformista italiano fu una storia controversa. L’epilogo del PSDI non fu degno della statura del suo fondatore. La scelta atlantista fin da subito lo mise al centro di numerose demonizzazioni sia da parte del PCI che dal fronte del PSI. Anche se la sua amicizia con Pietro Nenni non venne mai meno. Giuseppe Saragat è stato una delle figure più significative della politica italiana del secondo dopoguerra, caratterizzata da un obiettivo perseguito coerentemente e anche appassionatamente in tutte le fasi del suo itinerario politico, quello di promuovere un grande partito socialdemocratico secondo il modello europeo. Non ci riuscì, ma la storia qualche decennio dopo ci consegnò un verdetto senza appello: aveva ragione. Saragat aveva visto oltre. Saragat aveva carisma, era un forte oratore, ma volava troppo alto, affascinava ma non convinceva, nonera un organizzatore, non amava la vita di partito a contatto con la base. Scriveva di lui Montanelli: «Come capo di partito lasciava alquanto a desiderare. Forte del fatto di averlo inventato lui e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri, se ne curava poco. Salvo per le grandi decisioni esclusivamente sue, vi andava di rado. Di riorganizzazione, di tessere, di quadri, di giochi di corridoio e di potere Saragat non ha mai voluto sapere [...]. L’unica carica che considerò della sua altezza e per la quale si batté fu la Presidenza della Repubblica».

Saragat si era sempre considerato il maggior sponsor della stagione del centrosinistra e anche il grande mediatore del rapporto tra Psi e Dc. Al  suo ruolo di sponsor del centro-sinistra Saragat affidava la realizzazione di un altro obiettivo: quello della sua candidatura alla presidenza della Repubblica. Dopo il governo Fanfani, la tesi che Saragat fa propria è che la scelta del quarto capo dello Stato, successore di Gronchi, debba essere l’espressione della nuova maggioranza di centro-sinistra ormai realizzata; ed è quale garante del centro-sinistra che alla fine del settennato gronchiano presenta la sua candidatura alla suprema carica dello Stato. Ma essa si scontrava con la strategia adottata da Moro, che mirava ad equilibrare la scelta per il centro-sinistra con una presidenza moderata: quella di Antonio Segni. Al voto la sconfitta di Saragat è tutt’altro che una débâcle. Ottiene 334 voti; votano per lui anche i comunisti e – grazie al sostegno dei socialdemocratici, dei repubblicani e dei socialisti – si qualifica come il candidato presidenziale espressione della nuova coalizione. A conferma delle sue ambizioni, all’indomani dell’elezione mancata, scrive un’accorata lettera a Moro in cui lamenta l’ingeneroso trattamento ricevuto dalla Dc, che l’aveva avuto come leale alleato per tanti anni.

La fine anticipata della presidenza Segni lo rimette in gioco. Tuttavia, la lotta per il Quirinale sarà dura e la designazione arriverà solo alla fine di una delle elezioni più combattute in tutta la storia della Repubblica. Rivali di Saragat sono – oltre al previsto Fanfani e con ben maggiori prospettive – il presidente del Consiglio di due mandati, Giovanni Leone, che fin dall’inizio è proposto come candidato ufficiale della Dc, ma anche l’antico amico e ormai stretto alleato, Pietro Nenni, attorno al quale fanno blocco le sinistre. La prima votazione per l’elezione del nuovo presidente avviene il 16 dicembre con due candidati: Leone e Saragat. Il primo, che parte con la promessa della Dc di un sostegno garantito, non riesce ad andare oltre i 313 voti per l’azione dei «franchi tiratori» fanfaniani. Saragat fino al settimo scrutinio rimane attorno ai 140 voti, senza tuttavia superarli. I comunisti votano per Terracini. Davanti ad una situazione che si conferma di stallo, Saragat dichiara di ritirarsi; non si tratta di una rinuncia, ma piuttosto di una manovra tattica per evitare di logorarsi. Dopo la decima votazione appare un nuovo candidato, Pietro Nenni, per il quale – oltre ai socialisti – votano anche i comunisti, dopo l’abbandono del candidato di bandiera. La candidatura di Nenni può contare su di un massimo di 350-353 voti e alla quattordicesima votazione li prende tutti, ma non sono sufficienti; ugualmente i 406 voti di Leone dopo che la Dc è riuscita a ridimensionare l’offensiva dei «franchi tiratori». È un nuovo stallo che viene superato dal ritorno in campo di Saragat. I leader democristiani si rendono conto che Leone non ha possibilità di essere eletto per la fronda interna e anche gli ultimi, disperati, tentativi di Fanfani si scontrano con l’opposizione del segretario del partito, Rumor. Dunque: i democristiani accettano la soluzione Saragat. Per Saragat voteranno anche i comunisti, dopo un negoziato condotto dal segretario socialdemocratico Tanassi con i vertici del Pci e soprattutto con Giorgio Amendola, il quale spera (invano) che l’elezione del vecchio amico e compagno d’esilio possa favorire una riunificazione delle sinistre. Inoltre per il Pci era il primo tentativo di poter sperimentare la strategia abbozzata da Togliatti (da poco scomparso) con il memoriale di Yalta. I comunisti, per i loro voti, vorrebbero una pubblica richiesta da parte di Saragat, alla quale si oppone la Dc; ma una dichiarazione del leader socialdemocratico, in cui egli si augura che sul suo nome ci possa essere «la confluenza di tutti i gruppi democratici e antifascisti», soddisfa il Partito comunista. Abbandonata la candidatura di Nenni (che, pur arrivato a quota 335, restava senza speranza), il Pci sposta i propri voti su Saragat che, al ventunesimo scrutinio viene eletto con 646 voti. Le 150 schede bianche riflettono l’astensione di un terzo della Dc. I liberali votano per Martino, a cui va anche una parte dei voti delle destre, i missini per De Marsanich. È il 28 dicembre del 1964, la votazione ha richiesto ben dodici giorni, compresi Natale e Santo Stefano.