Ormai il padrone del vapore è Matteo Salvini. Anche al Sud. Le elezioni in Abruzzo confermano quanto si sta delineando da tempo nei sondaggi: la Lega domina la politica italiana ed è la carta vincente del centrodestra, che senza non potrebbe andare da nessuna parte, con buona pace degli entusiasmi esagerati di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), a fronte di quelli più contenuti di Silvio Berlusconi, che di padroni non ne ha mai avuti e dunque fatica a riconoscersi in un ruolo gregario. Conta poco, quindi, che il nuovo presidente dell’Abruzzo, sia Marco Marsili, un passato in Alleanza nazionale e attuale senatore di Fratelli d’Italia. La sua vittoria (48%) è stata determinata dalle ex camicie verdi, che hanno raccolto quasi il 28% dei consensi, contro il 9% di Forza Italia e il 6,5 del partito di Meloni e dello stesso neo governatore.

 

Il candidato del centrosinistra, Giovanni Legnini, ottiene il 31% dei voti. Un risultato che potrebbe sembrare ottimo vista l’aria che tira, ma che in realtà mette ulteriormente in evidenza l’agonia di quello che appena 5 anni fa era il partito di sinistra più grande d’Europa, quel Pd che nella coalizione abruzzese ha raccolto solo l’11% dei consensi. Al 31% si arriva soltanto grazie all’apporto di una miriade di liste civiche. Si conferma così quanto a sinistra in molti hanno già capito da tempo: soltanto nascondendo il simbolo del Partito democratico sotto una spessa coperta di civismo è possibile restare nel gioco.

 

Il vero elemento di novità di questa tornata elettorale sta nel fatto che la Lega, con la sua anima populista, per la prima volta conquista una regione del Sud, dando forma definitiva alla sua trasformazione da partito del Nord di ispirazione secessionista. Che continui ad avere il suo baricentro all’ombra delle Alpi è un dato di fatto, ma ormai è sempre più difficile identificarla come forza politica con un’identità localistica. È il motore del centrodestra italiano e gira pieno regime.

 

Al centrosinistra non resta che consolarsi – si fa per dire - con la “vittoria” a Sanremo, che inevitabilmente ha assunto una chiave politica dopo le polemiche che sono seguite all’affermazione di Mahmood, bocciato dal televoto, che gli ha preferito Ultimo, e portato al trionfo finale da sala stampa e giuria d’onore. Una spaccatura tra volontà popolare ed élite che è lo specchio neppure tanto deformato di ciò che da tempo accade nel Paese.
Eppure, quando, in passato le regole erano diverse e l’esito del Festival della canzone italiana era deciso soltanto dal televoto, c’è chi ha speso centinaia di migliaia di euro per dopare il risultato finale, comprando pacchetti di sms. È quello che in un certo senso accade oggi in politica con i social network, sui quali si muovono plotoni di account fasulli e bot con l’intento di orientare il consenso. È successo negli Usa con Trump, è successo e succederà di nuovo anche in Italia come altrove in Europa. Ma per quanto possa essere condizionato dai trend topic, il voto popolare resta quello che è: del popolo. E come tale - nei limiti della Costituzione e delle leggi - va rispettato, anche a costo di sbatterci il muso e ricominciare da zero.


Enrico De Girolamo