Da Regione contendibile, la Basilicata venuta fuori dalle urne si è dimostrata un fortino per il centrodestra. La vittoria di Vito Bardi è stata netta con un rotondo 56,6% che non ammette repliche. Ma il risultato in Lucania offre diversi spunti politici. Il primo, più banale, riguarda lo stato di salute di Forza Italia che si conferma ottimo. In Basilicata gli Azzurri, che hanno difeso a denti stretti la ricandidatura di Bardi, quasi doppiano la Lega, confermando una tendenza che fa sorridere Tajani in vista delle Europee. Non è un caso se uno dei primi a complimentarsi col collega lucano è stato proprio Roberto Occhiuto. «Dopo il recente successo del presidente Marsilio in Abruzzo, viene premiato il buongoverno di Forza Italia. I lucani hanno riposto il loro futuro nelle mani migliori, optando per la soluzione politica più solida, affidabile e credibile. Al presidente Bardi va il mio caloroso augurio di buon lavoro e l'impegno a proseguire in una sana collaborazione fra due Regioni del Sud confinanti e vicine», ha dichiarato a caldo nella sua doppia veste di governatore della Calabria e vicepresidente vicario del partito.

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Ma, a ben guardare, il dato politico più interessante che viene fuori dalla Basilicata non riguarda il centrodestra quanto piuttosto il campo opposto. Qui Conte e la Schlein hanno fatto di tutto per consentire un’agevole vittoria agli avversari litigando fino all’ultimo sul candidato presidente. Un po’ come hanno fatto alle ultime regionali in Calabria con candidati nominati e bruciati nel giro di 24 ore. Non solo ma non sono riusciti a costruire il famoso “campo largo” con i centristi di Azione e Italia Viva che sono risultati determinanti per la vittoria di Bardi.

Volendo fare un’analisi superficiale del voto, potremmo dire che il centro questa volta è stato decisivo per la vittoria finale. Ma dietro le sigle dei partiti, soprattutto nel Mezzogiorno, ci stanno le persone. Se guardiamo i dati elettorali da quest’ottica ecco aprirsi allora il vero problema politico, che riguarda soprattutto il Pd.

La nuova segreteria da tempo insiste nel dire di voler portare avanti un’opera di bonifica per liberare il partito da cacicchi e capibastone. Il problema è che in politica contano le idee, ma anche i voti non scherzano. Liberarsi dei maggiorenti del partito senza avere soluzioni valide rischia di essere un boomerang. Ed è esattamente quello che è successo in Basilicata con Marcello Pittella. Ex presidente della Regione per due volte, ha interrotto la seconda legislatura per la vicenda giudiziaria che l’ha travolto (e che poi si è risolta in una bolla di sapone). Il Pd anziché riaccoglierlo gli ha fatto muro, proprio perché evidentemente lo catalogava nelle due categorie che la Schlein vuole debellare. Colpa del suo lignaggio, visto che il papà era uno degli esponenti più in vista del Psi lucano e il fratello è stato vicepresidente del Parlamento europeo e senatore del Pd (oggi è sindaco di Lauria). Troppo per sfuggire alla furia di rinnovamento. Un po’ come quello che è accaduto a Mario Oliverio che colpito da un'inchiesta giudiziaria (anche qui conclusasi nel nulla) si è trovato il partito contro in nome del rinnovamento. Certo Oliverio non aveva la stessa forza elettorale di Pittella. Quest’ultimo invece sì e si è vendicato contro il suo ex partito. Ha deciso di passare con Calenda ed ha raccolto quasi ventimila voti che hanno attribuito ad Azione il 7,5%, una manciata di voti sotto la Lega.

Non solo. C’è anche un altro transfugo del Pd che ha contribuito alla vittoria di Bardi. Si tratta di Mario Polese, avvocato 42enne, consigliere regionale uscente, ex Pd, di cui è stato anche segretario regionale, poi passato con Italia Viva di Renzi. Un’altra risorsa che il Pd, sia pure con motivazioni diverse, si è lasciato sfuggire. Lui ha raccolto oltre 18mila voti e un ottimo 7%.

Con questo ovviamente non vogliamo dire che non ci debba essere rinnovamento nel Pd, ma fra il dire e il fare ci corre un mare. Difficile arrivare ad una sostituzione di classe dirigente senza avere gli strumenti e un progetto politico definito. Difficile il rinnovamento se non c’è un partito in grado di lavorare quotidianamente fra la gente e selezionare così figure riconoscibili o rappresentative di istanze collettive.

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Nel Pd, come dimostrano le ultime candidature alle Europee, si fa una gran fatica a compiere operazioni del genere perché non esiste più il partito. D’altronde basta vedere la paradossale vicenda del nome della Schlein sotto il simbolo. La segretaria dice che qualcuno glielo aveva chiesto, non si sa chi, ma poi ha capito che la scelta era divisiva ed ha rinunciato. Ma prima ancora ha rinunciato la direzione nazionale che su un fatto così dirimente ha scelto di non scegliere e demandare l’ultima decisione proprio alla segreteria. Allora se nemmeno la direzione nazionale argomenta, dibatte e vota, come si può pensare ad una partecipazione sui territori?

Aggiungiamo che anche l’idea della segretaria di candidarsi in tutte le circoscrizioni per lanciare una sfida aperta alla Meloni, è stata accantonata per i mal di pancia degli uscenti che si erano visti stretti fra candidature della società civile e di dirigenti del partito. Anche qui la realpolitik è stata più forte dei principi.

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C’è anche il dato che il partito non sembra avere più autorevolezza nemmeno nei suoi esponenti. Su questo le candidature calabresi alle Europee sono sintomatiche. Nonostante i vari tentativi del segretario regionale, il senatore Nicola Irto, nessuno dei consiglieri regionali si è messo in gioco, anche come rappresentanza, come atto politico. Si è ripiegati allora su Jasmine Cristallo che non è che si sia distinta in questi anni per azione politica e che non sembra portare in dote moltissimi consensi.

Insomma ciò che insegna la Basilicata è che il rinnovamento non si può fare a parole, ma va costruito giorno dopo giorno sulla base di un progetto politico. Altrimenti sono solo, rischiose, parole al vento.