La famosa lettera di sostegno al governatore che sarebbe stata condivisa da circa 200 primi cittadini contiene al suo interno la chiave per capire davvero cosa sta succedendo, in vista dell’assemblea che tra pochi giorni dovrebbe consacrare la ricandidatura del presidente alle elezioni regionali del 2019
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Non è un bello spettacolo quello che sta offrendo il presidente della Regione Mario Oliverio. La chiamata alle armi dei sindaci calabresi a sostegno della sua ricandidatura alle elezioni regionali del 2019, più che una sincera dimostrazione di vicinanza politica sembra una leva obbligatoria imposta con la forza di una legge non scritta ma ugualmente perentoria.
I fatti sono noti. Nel giro di 2 giorni, duecento sindaci calabresi avrebbero sottoscritto un documento che “invita” il governatore a partecipare lunedì 17 settembre a una grande assemblea a Lamezia, nel corso della quale gli verrà chiesta “continuità nell’azione di governo”. In altre parole un’investitura pubblica e roboante per la sua ricandidatura alla guida della Regione.
Il famoso documento, però, Oliverio se l’è inviato da solo, mentre le adesioni sono state raccolte sulla parola nel corso delle ultime settimane con un lavoro certosino da parte dei suoi uomini.
Una strategia studiata a tavolino e rifinita in maniera grossolana a colpi di accetta, senza farsi tanti problemi di salvaguardare le apparenze. È stato chiaro fin da subito che dietro questa operazione, nella maggior parte dei casi, non ci fosse un autentico afflato da parte dei sindaci coinvolti, ma solo un diktat al quale in tanti hanno ritenuto di non potersi sottrarre. Una coercizione politica che emerge dalle righe dello stesso documento, redatto e diffuso dal governatore per essere usato come foglia di fico dell’intero disegno.
Nell’appello dei sindaci, infatti, si legge un’illuminante premessa: «Oggi i Comuni calabresi sono destinatari e soggetti attuatori di importanti investimenti che rendono possibile ed efficace una effettiva risposta ai bisogni delle comunità locali». In altre parole, attenti che in ballo ci ancora sono molti, tanti soldi.
«Il lavoro svolto va completato - si legge subito dopo - con il compimento delle opere programmate e con la definizione di nuovi programmi e proposte. Per rafforzare il progetto di rinnovamento non bisogna consentire che lo sforzo in atto, che si è caratterizzato in termini di discontinuità rispetto al passato, venga interrotto».
Ecco, il punto cruciale è proprio questo. È intorno a questa neppure tanto velata minaccia di chiudere i rubinetti dei finanziamenti ai Comuni e di lasciarli in balia dei cittadini-elettori delusi, che si consuma lo scandalo di una politica vecchia come il cucco che però, adesso, sembra aver perso anche quel minimo di pudore che un tempo relegava certi approcci al chiuso delle segreterie e dei caminetti.
Oggi il falò è pubblico, annunciato, obbligato. Come un sabba politico che richiama tutti, da destra a sinistra, amici e quasi nemici, per ballare al ritmo della musica imposta e, alla fine delle danze, incoronare il Candidato. Sarà lui stesso a portare la corona che dovranno calargli in testa. Sarà lui a decidere chi vive e chi muore. Il tutto nel silenzio tombale di un Pd, il suo partito, che semplicemente non esiste più e che viene surrogato dall’iniziativa personale e spregiudicata di chi ha già occupato ogni postazione possibile, compresa quella di parlamentare, ma ancora usa il potere istituzionale che gli è stato consegnato dai cittadini come un passepartout per ambizioni che in un Paese normale dovrebbero essere esaurite da tempo, per consentire un ricambio generazionale che, invece, viene puntualmente negato.
È una politica a pezzi, dunque, quella che emerge da questa azione di forza, con molti sindaci umiliati e ridotti a comparse costrette a recitare un copione che non hanno scritto ma che comunque hanno la responsabilità di avere accettato a testa bassa. E in tutta questa storia, gli elettori, le loro speranze e le loro delusioni, restano sullo sfondo, come i fondali posticci di un palcoscenico che servono solo per dare alla rappresentazione una parvenza di veridicità.