Era nell’aria da un po’, come quel vento che sa di mare e di rassegnazione. Il primo gruppo di migranti, quelli che avrebbero dovuto aprire le danze già a maggio, è finalmente partito verso l’Albania. La nave Libra della Marina Militare è diretta verso le coste del piccolo Paese balcanico, che si ritrova ad accogliere un progetto nato un po’ in sordina e già divenuto il simbolo di una politica migratoria di dubbia efficacia e (forse) dubbia legittimità.

Si potrebbe parlare di una vittoria per la politica estera italiana? Forse, ma una vittoria a quale prezzo? E soprattutto, chi ci guadagna davvero in tutta questa storia?

Inizia tutto con grandi proclami e un accordo firmato a novembre 2023 tra il premier Giorgia Meloni e l’istrionico primo ministro albanese Edi Rama. Un patto che sembrava avere tutte le carte in regola per diventare il fiore all’occhiello della nuova politica migratoria italiana: i migranti non più trattati come merce indesiderata, ma "accolti" in Albania, dove avrebbero dovuto trovare temporanea ospitalità in attesa di conoscere il loro destino. In una struttura pensata apposta per loro. E fin qui, tutto bello. Peccato che la realtà, come spesso accade, sia un’altra cosa.

Gli hotspot allestiti nelle località albanesi di Schengjin e Gjader sono pronti ad accogliere il primo gruppo di 400 migranti. Numeri piccoli, certo, ma sufficienti a destare sospetti su come verranno gestiti questi "ospiti". Schengjin, il porto d’arrivo, è già stato attrezzato per identificare e classificare i migranti: provenienza da Paesi sicuri, maschi, e non vulnerabili. Nessun bambino, nessuna donna, nessun anziano. Questa, in sintesi, la selezione. Al termine di questa prima scrematura, via tutti a Gjader, in una sorta di purgatorio moderno, dove verranno distribuiti tra un centro per richiedenti asilo, un CPR e, ciliegina sulla torta, un penitenziario in miniatura con soli venti posti per i più sfortunati.

Le cifre parlano chiaro: per questo progetto, che qualcuno definisce avanguardistico e qualcun altro più semplicemente folle, si parla di un miliardo di euro. Avete letto bene, un miliardo! Una cifra enorme, soprattutto se pensiamo che nella prima fase saranno solo 400 i migranti coinvolti. Ora, non serve essere dei matematici per capire che il conto è presto fatto: più di due milioni a persona. Un costo esorbitante per un progetto che promette molto e, fino a ora, ha consegnato poco o nulla.

E poi, c’è la questione della sovranità. Di chi è davvero quel pezzo di terra che accoglierà i migranti? La domanda non è solo filosofica, perché mentre Rama si smarca con eleganza, dichiarando che «noi non c’entriamo niente, è territorio italiano», sopra le strutture svettano fieri i tricolori italiani, e tutto – ma proprio tutto – è gestito da personale italiano. Poliziotti, funzionari, persino i sanitari. Insomma, un pezzo d’Italia in Albania, gestito come una sorta di colonia moderna, con un occhio ai migranti e l’altro ai bilanci.

Come se non bastasse, attorno a questa vicenda c’è anche tutto un contorno che sembra uscito da una pellicola a metà tra la satira e il dramma. A Schengjin è persino spuntata una trattoria italiana – nome non casuale: Trattoria Meloni – dove tra un piatto di pasta scotta e una pizza all’ananas tutto ruota attorno alla figura della premier italiana. Alle pareti campeggiano fotomontaggi grotteschi che ritraggono i grandi della Terra (sì, anche Papa Francesco) in bagno, seduti in posizioni non proprio regali. Il folklore si mescola all’assurdo. E chissà cosa ne penserebbe la stessa Meloni.

Intanto, mentre da un lato spuntano ristoranti e si canta a squarciagola “Felicità” di Albano e Romina e “L’Italiano” del compianto Toto Cutugno, dall’altro c’è chi storce il naso. C’è chi vede questo piano come una nuova forma di colonialismo. Qualche settimana fa, un gruppo di attivisti ha addirittura strappato via uno striscione sul porto, che celebrava in modo poco velato il vecchio slogan “L’Albania è italiana”. Segno che non tutti sono entusiasti di vedere il proprio paese trasformato in una sorta di colonia penale tricolore per i migranti europei.

A Gjader, le strutture sono pronte ad accogliere i migranti, ma lo spettacolo è tutt'altro che accogliente. Cemento grigio, filo spinato e reti metalliche delimitano un'area di 70mila metri quadrati dove saranno detenuti i richiedenti asilo in attesa di una risposta. Un luogo che assomiglia più a una prigione che a un centro d’accoglienza. Ma tant’è, la burocrazia ha le sue regole. Per ora si sa solo che l’Italia ha già speso tanto, forse troppo, per un progetto che sembra più un esperimento che una soluzione. E la domanda resta: vale davvero la pena investire così tanto per un’idea che, fin dall’inizio, ha sollevato più critiche che applausi?