Intervista al giornalista che ha presidiato il quartier generale della candidata sconfitta: «La vice presidente ha parlato di temi che non interessano alla middle class. Ma il vero tema è se l’America sia pronta per un presidente donna»
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Una chiacchierata con Luca Rigoni, giornalista inviato di Mediaset presso il quartier generale di Kamala Harris a Washington. Luca è alla nona elezione presidenziale consecutiva, avendo seguito tutte le notti dalla sfida fra Clinton e Bush senior nel 1992. Ci ha raccontato, in diretta, il dopo l'11 settembre 2001 da Washington, l'uragano Katrina da New Orleans e ha intervistato ben tre segretari di Stato americani, ossia Henry Kissinger, Colin Powell e Condoleezza Rice. Di lui il New York Times ha detto: “a prominent anchor at a TV channel owned by the Italian company Mediaset”, ossia “un conduttore di spicco in un canale televisivo di proprietà della società italiana Mediaset”.
Una serata, quella americana, dai momenti contrastanti: da testa a testa con Harris lievemente avvantaggiata a vittoria schiacciante Trump. Come l’hanno presa i sostenitori e il team di Kamala?
«A Washington il clima molto era particolare e anche un po’ strano rispetto ad altri quartieri generali, come, ad esempio, quello di Obama. Innanzitutto c’è stato ritardo nella scelta della location: doveva essere in Delaware a Wilmington, perché la Harris aveva ereditato il quartier generale di Biden. A tre giorni da martedì ha spostato tutto alla Howard University, nella sua cara e vecchia università qui a Washington. È partito tutto in ritardo anche a livello organizzativo. Il palco è stato montato poche ore prima. Se dovessi trovare un termine per definire tutto, direi raffazzonato. Anche la serata è stata particolare: si è trasformato tutto rapidamente in una grande festa, tranne una serie di momenti, quando i network televisivi assegnavano gli stati e dove, o tutti esultavano o, se vinceva Trump, si silenziavano, tutto lasciava presagire ad una grande festa con tanta musica. Ad un certo punto, ad inizio serata, si notava un nervosismo da parte di Trump che incalzava i suoi ad andare a votare quando le urne erano ancora aperte, questo faceva pensare a un testa a testa con Kamala avvantaggiata. È durato poco: appena sono arrivati i voti più consistenti anche negli stati più democratici, si notava che qualcosa non andava. Li si è capito che andava male. Questa sorta di finzione, questo party con tanta musica ha continuato finché si è diffusa la voce che la Harris avrebbe parlato. Quando si è capito che andava male, il capo del suo staff elettorale, ha detto in diretta: “stiamo per chiudere visti i risultati, chi è qui per lavorare continui pure, intanto noi spegniamo le luci”, per poi, essendo ancora aperte le urne sulla West Coast, dire: “continuate ad andare a votare ma data la situazione ora non ha senso che restiate qui”. C’è stata la netta percezione, con beneficio di inventario, che le cose stavano andando male abbastanza presto. Si è cercato di tenere alto il morale e poi è abbastanza impressionante vedere come, dopo le parole del suo capo dello staff, la gente defluiva».
Nel discorso di concessione la Harris non entrata nel dettaglio dei motivi della sconfitta. Dove ha perso?
«Le ha perse fin dall’inizio. È subentrata troppo tardi e con una forte debolezza sui temi cardine che interessano all’elettorato. Ha avuto una vaghezza ripetuta rispetto alla durezza implacabile, aggressiva e volgare di Trump nell’affrontare vari temi, fra i quali le guerre, che interessano poco all’elettorato americano. Se parli con la middle class afroamericana, ispanica, non gliene importa nulla di questo argomento ma loro ti dicono esplicitamente che non vogliono che i soldi delle loro tasse siano spesi in conflitti. Su questo Trump è stato netto, preciso e consapevole. Grazie sia al suo staff che alle sue capacità intuitive. Lei ha dato una immagine di prima presidente donna, colta, però si percepiva una vaghezza costante senza discostarsi da Biden, consapevole che non poteva farlo. Ha cominciato a farlo troppo tardi».
Una brutta sconfitta per Kamala e per i Democratici: quale futuro per loro? Esisterà un nuovo Barack Obama?
«Vedremo chi si proporrà, soprattutto fra i governatori. Dovranno rivedere il partito e immaginarlo di nuovo, completamente da zero. C’era una battuta che girava la sera delle elezioni: “se vince Kamala sarà il quarto mandato di Obama”. Il vecchio establishment ha subito un colpo durissimo dalla vittoria di Trump. Dopo questa batosta servirà distaccarsi per forza, consapevoli che di Obama ne esiste solo uno. Ho il sospetto che Kamala sia stata mandata allo sbaraglio perché altre figure di rilievo non hanno voluto correre il rischio di subentrare a Biden a corsa iniziata contro un Trump fortissimo, determinatissimo, anche se spesso greve ed eccessivamente aggressivo. Credo che i democratici dovranno interrogarsi su una domanda: l’America è pronta per un presidente donna? Non è andata nel 2016 con la Clinton e, neppure, con la Harris oggi. La democrazia diretta americana voterà mai un presidente donna? Questa è la vera domanda. Il partito democratico ne esce perdente e distrutto tanto quanto lei. Tutto il gruppo dirigente, con Obama e Clinton in testa, è stato totalmente sbaragliato sia dalla scelta e dalla sconfitta».
Una domanda personale ora. Per te si è trattata della nona elezione presidenziale. Che notte è stata?
«La causalità ha voluto che nelle altre notti elettorali, io finissi sempre nei quartieri di chi poi ha vinto le elezioni. In quei casi era palpabile l’emozione e la gioia, che sfociava nel discorso della vittoria. Qui a Washington si sono spente le luminarie e la gente è andata via come uno spettacolo musicale giunto al termine. Quasi a coprire una realtà che andava via via peggiorando».